No hard feelings. Interview with film director Faraz Shariat

Appena presentato al Festival di Berlino 2020, “No Hard Feelings” (in originale Futur Drei) di Faraz Shariat  è una storia autobiografica, che racconta la storia di Parvis, figlio di iraniani in esilio. Il protagonista trascorre la vita nella piccola città in cui è nato, abbandonandosi alle feste e agli appuntamenti su Grindr. Dopo essere stato sorpreso a rubare, viene condannato ai lavori socialmente utili in un centro per rifugiati dove incontra i fratelli Banafshe e Amon, fuggiti dall’Iran. Man mano che cresce l’attrazione romantica tra Parvis e Amon, la fragile relazione tra i tre viene messa alla prova. Si ritrovano e si perdono durante un’estate, tra un intenso primo amore e un tentativo di un futuro comune, nella consapevolezza che, in quanto figli di immigrati, in Germania non hanno le stesse possibilità degli altri.

Vogue ha incontrato Faraz Shariat a Berlino.

Alcuni anni fa sei stato sorpreso a rubare in un negozio. Quell’evento, per vie traverse, ti ha poi portato a raccontare in un film appena presentato alla Berlinale, nella sezione Panorama, una storia dove si intrecciano, in maniera molto originale, la tematica queer e quella dell’immigrazione. Puoi raccontarci più nel dettaglio la genesi di questo tuo primo lungometraggio?
Nell’estate del 2015, sono stato sorpreso a rubacchiare articoli di moda di Givenchy in un grande magazzino. In quel periodo ero molto interessato alla cultura pop e allo stile di vita delle star. Avevo diciannove anni, dopo tutto: volevo vestirmi alla moda. Come pena, mi sono state comminate centoventi ore di servizio civile in un centro di accoglienza per migranti. Era l’anno della grande ondata migratoria in Germania. In qualità di figlio di immigrati iraniani, il mio compito era fare da traduttore dal persiano.

 

Faraz Shariat

Da una boutique di Givenchy ad un centro di accoglienza… un passaggio brusco.
Sì, ma anche un’esperienza che mi ha segnato per sempre. All’improvviso mi sono ritrovato tra persone che, per sfuggire a condizioni di vita impossibili, si erano lasciate dietro tutto. Come i miei genitori trent’anni fa, molti sono venuti dall’Iran. Conoscere quelle persone, così simili a me fisicamente, eppure con prospettive di vita così diverse, mi ha fatto riflettere molto sul divario che separa gli immigranti di prima e seconda generazione. Il film prende avvio da questa considerazione.

Durante questo periodo hai condotto numerose interviste con i rifugiati, affiancato dalle coautrici del film Raquel Molt e Paulina Lorenz, con le quali nel 2015 hai fondato il collettivo “JÜNGLINGE FILM”.
Sì, prima di scrivere il copione, abbiamo raccolto innumerevoli testimonianze di migranti. Ci interessavano le loro storie, i loro sentimenti, i loro sogni. Sapevo inoltre che avrei voluto raccontare una storia d’amore gay. Quando ho saputo dell’esistenza di centri di accoglienza solo per persone LGTB, ho chiesto immediatamente di avervi accesso e di poter continuare a fare interviste per la mia ricerca.

 

Dove si trova questo centro di accoglienza per LGBT?
A Berlino, la città dove vivo oggi. Lì ho iniziato ad affrontare molte domande che sono finite nel film: quali sono, in particolare,  le esperienze dei rifugiati queer? Da quel momento in poi, realtà e finzione non hanno mai smesso di fecondarsi a vicenda.

Sapevi già a questo punto che volevi fare un lungometraggio?
Sì, fin dall’inizio sapevo che con questo materiale avrei girato un giorno il mio primo lungometraggio, non un documentario, e che dunque dovevo sentirmi libero di aggiungere alla storia elementi di finzione.

Cosa ti ha colpito di più durante questa fase di ricerca?
Le dinamiche umane che si vengono a creare all’interno di uno spazio chiuso e sovraffollato come un centro di accoglienza, come vi si vive nel quotidiano, quali forme uniche e interessanti di convivenza vi si creano. L’alloggio dove vivono i due fratelli del film è stato ispirato dall’architettura che ho visto nella casa per rifugiati a Berlino. I richiedenti asilo hanno poche opportunità di uscire e di entrare in contatto con gli altri cittadini per strada: vengono tutti relegati inizialmente nella classe dei cittadini “da integrare”, con tutto quello che questo particolare status civico comporta.

Cosa comporta questo status?
Come immigrato vieni messo davanti ad una nuova cultura, quella del paese ospitante, e ti viene detto che, perché la richiesta d’asilo abbia successo, ti ci devi adattare. In sostanza, si chiede loro di cambiare la loro cultura, di adattarsi, il tutto in tempi brevissimi. Non tutti sono in grado, o desiderano farlo. È stato doloroso, in più di un’occasione, osservare le difficoltà incontrate da alcuni migranti ad abbandonare la propria cultura per abbracciarne un’altra. In un centro di accoglienza avvengono al contempo anche cose meravigliose. Si ha modo di conoscere nuove persone; si sviluppano nuove e profonde amicizie. Più che il passato, o il presente, è il futuro a dominare le conversazioni all’interno di un centro di accoglienza: i richiedenti asilo si raccontano l’un l’altro dei loro progetti nel nuovo paese, cosa vogliono realizzare, cosa vogliono diventare.

Non per niente il film si chiama “Futur Drei” (Futuro tre).
Questo sguardo rivolto al futuro è sicuramente una delle cifre del film. Fin dall’inizio ci siamo detti: non ci interessa da dove vengono i nostri personaggi. Non vogliamo guardare al loro passato, o raccontare come è stato il loro viaggio, ma dove vogliono andare. Lavorare in modalità “futuro” si è rivelata un’esperienza molto liberatoria sotto il profilo artistico.

Come inizia il film?
La storia viene raccontata, inizialmente, dalla prospettiva di un figlio di migranti iraniani, Parvis. È nato e cresciuto in Germania, in un piccolo villaggio della Bassa Sassonia chiamato Hildesheim. Nella sua stanza all’interno dell’appartamento dei suoi genitori ha costruito un piccolo museo pieno di elementi della cultura pop. Sperimenta la sua sessualità gay attraverso gli incontri online. Fino al giorno in cui viene sorpreso a rubare in un negozio…

…E si ritrova a fare da interprete dal persiano all’interno di un centro di accoglienza. Qui farà l’incontro con due richiedenti asilo più o meno coetanei — i fratelli Amon e Banafshe — che cambierà la sua estate.
Sì, tra i tre si sviluppa un’intensa amicizia, e tra i due ragazzi un amore, che diventeranno sempre più forti ed intensi nel corso dell’estate. Questa, ridotta all’osso, la trama. A cui è sottesa una domanda, che è un po’ il leit motiv del film: quali sono i sentimenti degli immigrati in Germania, di prima e seconda generazione? Questo è un film sulle loro speranze e le loro paure.

Hai dichiarato che questo film offre un nuovo modo di parlare del tema della migrazione, e che costituisce una reazione – cito testualmente – “alle molte rappresentazioni errate o sotto-rappresentazioni nel cinema tedesco o europeo dei migranti”.
Il cinema ritrae i migranti per lo più come vittime o carnefici, ma raramente come persone. Ci sono film in cui, già durante i primi cinque minuti, si capisce subito sotto quale luce un migrante viene ritratto nel corso del film. Nella maggior parte dei casi, o come vittima, o come carnefice. Trovo questa rappresentazione così riduttiva! Parlando con queste persone nel centro accoglienza, ho potuto rendermi conto di quanto sfaccettate, e non di rado ricche di contraddizioni, siano le loro esperienze. Ecco perché, fin dall’inizio, l’ordine del giorno per noi è stato molto chiaro: mettere in scena una storia in grado di rendere giustizia a questa diversità.

 Come avete evitato i cliché?
In questo film abbiamo scelto di avere personaggi che non si limitano mai ad incarnare i problemi, seppur importanti, che sconvolgono le loro esistenze — come il razzismo, l’omofobia, le molestie sessuali, la deportazione, ecc.

 

Personaggi che non assurgono mai a simbolo del problema che stanno vivendo.
Esattamente. Qui abbiamo invece personaggi che mandano avanti la loro vita. A volte lamentandosi, certo, a volte confrontandosi sugli argomenti più disparati, dal cosa significa essere di origine iraniana, al manga giapponese come “Sailor Moon”. Il contesto è difficile, ma a dispetto di tutti i problemi cui vanno incontro, conservano un margine di azione: nonostante tutto, conservano la libertà di dire e fare cose, o provare sentimenti, che esulano dal resto. La loro vita va avanti.

Un esempio di questa complessità?
Prendiamo, per esempio, il personaggio di Amon, un giovane immigrato gay iraniano. Sarebbe stato facile cadere nello stereotipo: dopo anni di repressione, arriva nella liberale Germania e bam! viene travolto da un risveglio di passione. Abbiamo deciso invece di dare alla cosa una connotazione più ambivalente: in nessun punto del film lo sentiremo dire, ad alta voce: “Ero oppresso e ora non lo sono più”, perché la realtà dei gay in Iran è molto diversa da come ce la immaginiamo — come ho scoperto nel corso di numerose interviste nel centro di accoglienza per persone LGTB. Nonostante le ovvie difficoltà, molti di loro hanno raccontato di essere riusciti, un po’ per vie traverse, a ritagliarsi una vita sessuale e sentimentale soddisfacente, talvolta anche con il supporto della famiglia.

 La sorella di Amos, ad esempio, gli mostra il suo totale sostegno. Anche i genitori iraniani di Parvis non sembrano avere grosse riserve sull’omosessualità del figlio. I loro ruoli sono stati interpretati dai tuoi genitori, giusto?
Sì, sono i miei genitori! Hanno lavorato con noi per 7 settimane sul set! Sono stati un ottimo “sistema di supporto” durante le riprese, e, credo che questo loro amore incondizionato emerga nel film.

Ho letto che nel 2015 hai realizzato un breve documentario sui tuoi genitori.
È intitolato “I am your son”, ed è il frutto di cinque giorni di riprese all’interno della casa dove sono cresciuto, a Colonia. L’idea era quella di documentare come vivono i miei genitori da quando tutti io e i miei fratelli ci siamo trasferiti altrove. In questi giorni insieme abbiamo parlato molto. In particolare di come, trent’anni dopo essersi trasferiti in Germania, si sentano ancora “da qualche parte a metà strada”, tra l’Europa e l’Iran. Il loro sogno è, un giorno, di tornare a vivere nella città dove sono nati e si sono conosciuti, Teheran.

Il film insiste a più riprese su questo tema: se non si è nati in un paese, se non si dispone del giusto passaporto, difficilmente l’integrazione sarà completa ed indolore. I tre protagonisti, ad esempio, nel corso del film prendono coscienza del fatto che in Germania  non avranno mai le stesse possibilità.
Parvis è cresciuto in una famiglia borghese e benestante, e ha goduto di tutti i privilegi di un immigrato di seconda generazione: beneficia del duro lavoro fatto a suo tempo dai suoi genitori per garantirgli un futuro migliore nel paese d’adozione, anche se non sembra esserne del tutto conscio. Ben diverso il caso di Amon, che sa di dover ricominciare da zero.  Il grande paradosso del film: Parvis e Amon hanno più o meno la stessa età e parlano entrambi il farsi madrelingua, ma come immigrati di seconda (Parvis) e prima generazione (Amon), appartengono, di fatto, a due generazioni diverse.

Ci puoi anticipare qualcosa del tuo prossimo progetto?
Lo scorso anno abbiamo vinto il “FIRST STEPS AWARDS”, un importante premio per giovani talenti che, mi auguro, ci renderà la realizzazione di questo secondo progetto molto meno impervia della prima. L’argomento che intendo affrontare, questa volta, è il neocolonialismo, nelle sue varie forme. Come il tema dell’adozione transnazionale. Cosa succede quando gli europei bianchi vanno all’estero per adottare bambini provenienti da paesi poveri? Penso che per noi occidentali spesso non sia chiaro quali effetti possano avere il nostro potere e i nostri privilegi sugli abitanti di un paese povero – anche se crediamo di fare qualcosa di buono -, una contraddizione che vorrei provare a interpretare visualmente col prossimo progetto.

Pubblicato su Vogue.it, febbraio 2020

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