La soluzione per sfamare in maniera sostenibile un mondo sempre più affollato, che nel 2050 raggiungerà i 9,2 miliardi di abitanti, senza inquinare la terra e saccheggiare le risorse? Va cercata nell’ “agricoltura familiare”, ovvero nel lavoro dei piccoli agricoltori, dei pescatori tradizionali e dei pastori. Le ONG più attive nel denunciare i disequilibri sociali e i dissesti ambientali causati dall’agricoltura intensiva, come Slow Food, lo ripetono da anni come un mantra. Al coro si è aggiunta recentemente una voce importante, quella dell’ONU, che ha dichiarato il 2014 “anno internazionale dell’agricoltura familiare”, riconoscendo così la centralità del ruolo dell’agricoltura su piccola scala nella lotta alla fame e lo sviluppo sostenibile. Per la prima volta nella storia dell’organizzazione, a suggerire il tema di un anno internazionale è stata una campagna organizzata dalla società civile: la “Family farming campaign”, lanciata nel 2008 dal movimento rurale “World rural forum” con l’obiettivo di portare l’agricoltura familiare al centro delle agende dei governi. «Per decenni le grandi istituzioni internazionali, FAO in primis, hanno “remato contro”, promuovendo apertamente il modello intensivo e corporativistico della “rivoluzione verde”, basato sulle monocolture, OGM, sementi ibride, pesticidi e fertilizzanti chimici», accusa un portavoce dell’organizzazione. «Ciononostante l’agricoltura familiare oggi sfama il mondo: assicura infatti il 75% della produzione agricola globale e soddisfa circa l’80% della domanda dei mercati interni. Questo fa pensare che il suo potenziale inespresso sia enorme». «L’agricoltura familiare è l’unico modello di sviluppo in grado di coniugare sostenibilità e sovranità alimentare», spiega Raj Patel, attivista ed autore dell’illuminante libro “Stuffed and starved: from farm to fork. The hidden battle for the world food system”. «A differenza dell’agricoltura su larga scala, basata sulle monocolture, quella familiare è infatti diversificata: protegge la biodiversità e le tradizioni gastronomiche, mantenendo vive quelle reti produttive locali, diffuse capillarmente sul territorio, da cui dipende, più di ogni aiuto umanitario, la sicurezza alimentare dei paesi in via di sviluppo » Sembra essersene finalmente convinta anche la FAO, che lo scorso ottobre ha inaugurato storica una collaborazione con Via Campesina, la più grande rete di movimenti contadini del mondo, che segna una pietra miliare nella storia delle relazioni tra l’agenzia delle Nazioni Unite e la società civile. «Non si deve necessariamente essere d’accordo su tutto per poter collaborare, quel che conta è avere gli stessi obiettivi», ha commentato José Graziano da Silva, direttore generale della FAO. «L’agricoltura su piccola scala è anche per noi una delle soluzioni alla fame». Lo crede anche il climatologo premio Nobel Riccardo Valentini, uno dei principali promotori del Protocollo di Milano, il primo, ambizioso tentativo di un accordo planetario su cibo e nutrizione (come Kyoto lo è stato per le emissioni di gas serra), promosso dal Bcfn (Barilla centre for Food and Nutrition).Presentato lo scorso Novembre in occasione del 5° Forum on Food and Nutrition all’Università Bocconi, il “Protocollo di Milano” intende suggerire ai capi di governo del pianeta una road-map per risolvere i grandi paradossi dell’alimentazione nel mondo: la coesistenza di malnutrizione e obesità, l’uso dilagante dei terreni agricoli per finalità non alimentari, come la produzione di biocarburanti (il 45% del mais USA finisce ormai nei serbatoi delle auto), e la piaga dello spreco (pari a 1,3 miliardi di tonnellate di cibo all’anno, sufficienti in teoria a sfamare 4 volte i malnutriti del pianeta). «Gran parte dei problemi di malnutrizione del terzo mondo sono riconducibili all’abbandono delle campagne e alla conseguente “favelizzazione” selvaggia delle metropoli. Un sostegno forte all’agricoltura familiare è la via maestra per invertire la tendenza e radicare nuovamente i contadini alla terra.»
Una grande vittoria per la causa dell’agricoltura familiare si è consumata lo scorso dicembre a Bali, dove il WTO, riunito a congresso, ha licenziato uno storico accordo sul commercio mondiale, il primo davvero globale (159 i paesi signatari) dal 1995, anno di fondazione dell’organizzazione: per la prima volta i paesi in via di sviluppo potranno sovvenzionare i piccoli produttori nel quadro di politiche volte a stimolare la sovrapproduzione di alimenti necessaria a far fronte alle carestie, senza correre il rischio di incorrere in sanzioni. Una liberalizzazione fortemente voluta dall’India, ed osteggiata – niente di nuovo – da USA e UE, che pur sovvenzionano abbondantemente la propria agricoltura distorcendo i mercati delle derrate alimentari internazionali. L’associazione anti-povertà britannica “War on Want” invita tuttavia a smorzare ogni facile entusiasmo: «Tale clausola è garantita solo per quattro anni: troppo poco per tutelare il diritto al cibo di centinaia di milioni di persone nei decenni a venire.».
L’Italia, dove le piccole aziende con una superficie coltivabile inferiore ai 5 ettari rappresentano circa l’80% del totale, si conferma uno dei paesi europei dove l’agricoltura familiare è più vitale. Molte altre aziende potrebbero nascere, se solo si sfruttassero i tanti terreni incolti del nostro paese. Il pionieristico progetto della Regione Toscana “Banca della Terra”, entrato da poche settimane nella sua fase operativa, si pone il duplice l’obiettivo di censire i terreni incolti e di assegnarli successivamente a chi li voglia coltivare, con precedenza ai giovani, come strumento per contrastare sia il dissesto idrologico che la crisi del lavoro. In Lombardia, un’esperienza simile ha visto da poco la luce: è la startup TerraXChange, una piattaforma virtuale privata, ideata da un giovane studente di agraria per mettere in contatto i proprietari dei terreni abbandonati e aspiranti coltivatori. Nelle intenzioni del fondatore, la piattaforma fungerà a breve anche da “e-commerce dei prodotti della terra”, dando la possibilità ai consumatori di ordinare online gli ortaggi raccolti nei vari appezzamenti, e, così facendo, di supportare l’agricoltura su piccola scala.
Pubblicato su Vogue Italia, Gennaio 2014