Un trend in preoccupante crescita: quello dei “talenti migranti”. Giovani artisti in cerca di spazi e fortuna all’estero. In fuga dalla gerontocrazia. Dal passatismo. O dal sistema clientelare. Ragioni diverse dietro la stessa, drastica soluzione: lasciare un’Italia poco innovativa.
Nemo giovane talento in patria, se la patria in questione è l’Italia. È quanto emerge dai dati messi a disposizione dall’AIRE, l’anagrafe degli Italiani residenti all’estero, che denunciano il protrarsi,da almeno un decennio, di un’insolita ondata migratoria diretta verso le grandi metropoli estere, Londra, Parigi, New York ma anche, da alcuni anni, Barcellona e Berlino, che interessa tutto il Paese, e non più solo il Mezzogiorno e che coinvolge principalmente soggetti under 30, istruiti, con grandi motivazioni e capacità. A fare la valigia non sono più, come un tempo, principalmente scienziati e ricercatori, ma – e questa è la principale novità contenuta nel survey – anche il popolo dei “creativi” propriamente detto, composto da migliaia di giovani e brillanti artisti, fotografi, scrittori, attori, musicisti e designers, tutti accomunati dalla volontà di brillare oltre confine. Non si tratta insomma della solita “fuga di cervelli” di cui tanto è stato scritto in passato, ma piuttosto di una “fuga dei giovani talenti”, tout court, un’inesorabile emorragia di menti brillanti che interessa trasversalmente il paese un po’ in ogni settore. “Di cosa ci stupiamo?” si chiede la ventiduenne Adelita Husni-Bey, promettente pittrice e artista concettuale, vincitrice di un Mercury Contemporary Art Prize, da quattro anni felice “talento in fuga” a Londra. “In Italia non c’è posto per giovani talentuosi. Il nostro è un paese dove vige ancora è ormai succube di un sistema clientelare che non ha nessuna considerazione per la meritocrazia. I bravi, da noi non servono, anzi, danno addirittura fastidio. “Una logica ameritocratica, ma soprattutto gerontocratica. Chi, come me, crede che ci si possa realizzare nel lavoro già prima dei trent’anni è già partito, alla volta di paesi dove questo è possibile per davvero, e non una sfuggevole chimera””, le fa eco da New York Marta Mondelli, ventinovenne attrice e regista, autrice di un primo lungometraggio appena presentato al festival di Salerno. “Il nostro è l’unico paese dove si rimane “giovani”, nell’accezione tutta Italiana di non professionisti e dunque sottopagabili, fino a quarant’anni. Se all’estero la giovane età costituisce, soprattutto nei settori creativi, spesso addirittura un valore aggiunto, perché garanzia di idee più fresche e al passo coi tempi, da noi rappresenta un insormontabile ostacolo alla carriera”.“Ciò che più mette in fuga noi artisti, tuttavia, più che gerontocrazia e mancanza di meritocrazia, credo sia un altro male atavico del nostro paese, non meno virulento: il passatismo”, ribatte al telefono da Berlino il fotografo e artista Teodoro Lupo, trentadue anni, sette dei quali passati tra la capitale Tedesca e Parigi.“L’Italia, paese di fatto ripiegato nella contemplazione di un glorioso passato che da secoli non esiste più, ignora l’arte contemporanea. Impossibile per un artista sentirsi protagonista attivo del presente e del futuro”. «Detto questo, è singolare», osserva, «che la fuga di artisti non dia cenni d’arresto, anzi, aumenti col tempo di proporzioni, nonostante il panorama artistico Italiano, a onore del vero, tra nuovi premi, fondazioni e musei, abbia molto più da offrire oggi rispetto a dieci anni fa”. Sembrerebbe insomma che l’emoraggia di menti brillanti proceda inesorabile a dispetto degli sforzi delle istituzioni per arginarla. “L’élite creativa emigra non solo alla ricerca di un ambiente lavorativo young-friendly, ma anche per che sfuggire al senso di “perifericità”, chissà poi se vera o apparente, che si è ormai venuta a creare con la partenza di così tante menti brillanti”, spiega lo scrittore ventiquattrenne Vincenzo Latronico, anch’egli da poco Berlinese d’adozione, autore del romanzo d’esordio, “Ginnastica e rivoluzione”, pubblicato nel 2008 da Bompiani. “Io, ad esempio, sono emigrato principalmente per fuggire lo spettro della fuga”, spiega con un gioco di parole. “Quella fuga così immancabilmente presente in quasi ogni conversazione con amici e colleghi a Milano. Ho scelto Berlino perché è una città in cui si arriva, e non da cui si sogna di partire al più presto”. La fuga di giovani talenti, spintasi ormai troppo oltre, sembrerebbe essersi trasformata dunque in un fenomeno capace di autoalimentarsi: un pericoloso snow-ball effect, una reazione a catena già innescata e difficilmente arrestabile. Non resta che sperare che il punto di non ritorno non sia già stato superato, e che sia ancora possibile invertire la rotta. O quantomeno augurarsi che, nell’epoca di internet e del lavoro telematico, questa brillante élite in fuga trovi il tempo di dirigere con intelligenza le attività economiche e culturali del Paese anche da lontano.








Pubblicato su Vogue Italia, Ottobre 2010