Interview with Tahar Rahim

È il protagonista dell’ultimo film di Jacques Audiard, “Un profeta”, in cui recita la parte di un giovane carcerato arabo. Un ruolo che lo ha impegnato sotto ogni profilo e che lo ha consacrato nuova promessa del cinema francese

 

Quale aspirante attore non ha invidiato Tahar Rahim? Lo scorso anno è arrivato sulla Croisette da perfetto sconosciuto e ne è ripartito circondato dall’aura di nuova promessa del cinema francese. A convincere stampa e giurati del suo talento e del suo potenziale è stato il ruolo di protagonista in “Un profeta”, l’acclamato prison-movie del regista francese Jacques Audiard, vincitore del Grand Prix della giuria a Cannes, nominato a 13 César (il numero massimo possibile) e ora in lizza per l’Oscar come miglior film straniero. Grazie a quell’interpretazione il giovane attore francese di origine maghrebina fa il grande salto: oggi è una star superimpegnata, in giro per il mondo tra una promozione e l’altra, costretto a rifiutare ingaggi e interviste per mancanza di tempo. Le riprese del nuovo film che lo vede protagonista, “The eagle of the Ninth” di Kevin Macdonald, si sono appena concluse e subito Rahim deve presenziare a quelle del lungometraggio successivo, il nuovo film di Lou Ye (“Suzhou river”, “Summer palace”, “Spring fever”). Sempre nel 2010 reciterà nella pellicola di Ismaël Ferroukhi (“Le grand voyage”). Nel 2009 ha vinto il prestigioso European Award come miglior attore, mentre la prossima Nuit des César lo vedrà gran protagonista con ben due nomination, una come migliore interprete maschile e l’altra come miglior promessa. Il mondo del cinema è ai suoi piedi. A distanza di un anno, nel rievocare le giornate memorabili della premiazione di Cannes l’emozione trapela ancora dalle sue parole. La voce accelera, il gesticolare delle mani si fa più concitato, gli occhi si illuminano, un po’ come un bambino che racconta della sua prima volta al luna park. «Prima di arrivare mi ero detto: “Ti immagini se dovesse toccare a me?”, senza veramente sperarci; un po’ come quando si compra un biglietto della lotteria». Poi allarga le braccia come a mimare uno spazio enorme: «La sala era pazzesca: 2300 posti, giusto? Applaudivano tutti, nessuno escluso. E la cosa bella era che sembrava applaudissero in maniera sincera». Nel film di Audiard, già considerato un capolavoro, Tahar Rahim interpreta il ruolo di un giovane carcerato arabo (Malik El Djebena) costretto dall’ostilità del nuovo ambiente a intraprendere un tormentato cammino di formazione che lo trasformerà da spaesato e ingenuo neofita della prigione a leader di una banda criminale. «Ho dovuto studiare a lungo per interpretare un ruolo così lontano dalla mia persona. Per mesi mi sono nutrito di documentari e film d’ambientazione carceraria». Uno studio che ha dato i suoi frutti: non capita spesso di vedere un attore pressoché esordiente reggere un film così lungo e complesso quasi interamente sulle sue spalle, come la critica francese non ha mancato di riconoscere. «Tutto merito delle straordinarie capacità “maieutiche” di Audiard », dice con modestia Rahim. «Jacques è un regista incontentabile, capzioso, lavorare con lui può essere estenuante: sa esattamente cosa vuole da ciascun attore e non molla la presa fino a quando non l’ha ottenuto. Ti sorprende in continuazione, portandoti verso luoghi recitativi che non conoscevi e mai avresti pensato di esplorare. Ma in cambio vuole che l’attore lo sorprenda a sua volta, e si arrabbia se non lo fa». L’incontro con Audiard è avvenuto per un vero e proprio capriccio della sorte, di quelli che solitamente accadono solo nei film: «Un giorno ero in macchina con un amico che lo conosceva e gli abbiamo dato un passaggio. Ci siamo presentati frettolosamente e non ci siamo scambiati nemmeno una parola durante il tragitto. Mai e poi mai avrei immaginato di essere già stato scelto, in quel momento, come protagonista del suo prossimo film». In un’intervista rilasciata lo scorso anno a un quotidiano americano il regista rievocava così il suo primo incontro con Rahim: «Quando l’ho guardato negli occhi non vi ho trovato né melanconia, né tragedia, ma solo un ragazzo dal carattere leggero e aperto, pieno di vita». «Credo che Jacques volesse in cuor suo dare il ruolo di protagonista a un attore sconosciuto», commenta Rahim. «È un regista intimamente convinto che il cinema debba avere una forte connotazione sociale e che la sua funzione sia quella di raccontare il mondo reale. Se con la mia scelta ha deciso di stravolgere la comune idea di casting, lo ha fatto anche per sperimentare un modo di creare finzione che abbia una maggiore parvenza di realtà». Tahar Rahim si definisce una persona semplice, un “ragazzo di campagna”: nato 28 anni fa in una piccola cittadina francese al confine con la Svizzera, scopre il mondo del cinema attraverso la Tv, dove racconta di essersi rifugiato per sfuggire alla noia della provincia. Per anni si nutre dei film dei suoi idoli di sempre: Marlon Brando, Jean Gabin, immensi autori noir come Scorsese e De Palma, e i mostri sacri del cinema americano degli anni 70, Robert De Niro, Al Pacino e Dustin Hoffman. Quando annuncia ai genitori, una modesta coppia di origine algerina, di voler diventare un attore, trova un inaspettato supporto. Cominciano così anni duri durante i quali Tahar, prima a Montpellier e poi a Parigi, si divide tra lavori saltuari di notte e le scuole di recitazione di giorno. Nel 2007 si ritaglia un minimo di visibilità con il ruolo di ragazzo arabo di periferia in una serie televisiva, “La commune”, e interpreta la parte di un giovane cieco in una pièce teatrale di Hélène Zidi-Chéruy. Alla fine dello stesso anno, il fatidico passaggio in macchina che gli cambierà la vita, un incontro che ha segnato una tappa fondamentale nella sua carriera di attore. «Non solo», precisa Rahim. In effetti, il film di Audiard è stato il suo trampolino di lancio, ma gli ha anche insegnato a sbarazzarsi dei suoi modelli di sempre. «Artisticamente parlando, si è trattato di una vera e propria rivoluzione copernicana. Se prima mi “appoggiavo” a modelli esterni per interpretare un personaggio, con gli insegnamenti di Audiard ho imparato a trovare il punto d’appoggio in me stesso. Ho imparato a camminare con le mie gambe, a calarmi così profondamente nel ruolo da dimenticarmi che sto recitando. Oltre al carcerato Malik, dunque, anche l’attore Tahar intraprende parallelamente un cammino di crescita. E poiché Audiard è solito girare le scene nell’ordine cronologico con cui compaiono nel copione, credo che questa mia maturazione sia facilmente percepibile durante tutto il film». Ed è decisamente palpabile quando, discutendo di progetti futuri, Tahar annuncia di voler lavorare con registi emergenti, tradendo così una sicurezza professionale che lascia intendere che il ragazzo di provincia abbagliato e intimidito dalle luci della Croisette appartiene ormai al passato. «Ho come la sensazione di vivere in un momento di transizione nella storia del cinema e voglio esserne parte. E che a indicarci la strada non sarà un regista affermato, piuttosto un giovane regista emergente, addirittura più giovane di me. Al momento amo guardarmi attorno e cercare il talento nascosto nei filmmaker ancora sconosciuti. Alla ricerca di una sorpresa da chi meno me lo aspetto. In questo, oggi, mi sento molto simile ad Audiard». (In entrambe le foto. Tutti i capi sono Azzaro Silver. Fashion editor Michael Philouze) 

 

 

Pubblicato su L’Uomo Vogue, settembre 2009

 

  

 

 

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