L’oro verde dei poveri…
Originaria della regione dei Caraibi, diffusa dai Portoghesi un po’ ovunque nel mondo, soprattutto in Africa e Asia, la Jatropha è una pianta della famiglia delle Euphorbiacee utilizzata per secoli come rimedio erboristico contro alcune malattie, per produrre del sapone e, soprattutto, per costruire delle recinzioni attorno ai campi con lo scopo di tenere lontani gli animali selvatici che non amano il suo odore e ne stanno alla larga. Si tratta di una pianta tossica, non commestibile, capace di crescere su terreni aridi ed esausti in assenza di cure particolari. Vero e proprio campione di resistenza alla sete, si stima che la pianta abbia bisogno di un minimo di 600 mm di pioggia all’anno, ma in certe regioni dove l’aria è molto umida, come Capo Verde, la pianta sopravvive anche con soli 250 mm. Nel Sud dell’Egitto, alcuni ricercatori hanno piantato la Jatropha in pieno Sahara utilizzando acque di scarico municipali per l’irrigazione, dimostrando così che la pianta può attecchire e crescere floridamente persino nella sabbia del deserto, colorandolo di verde e fissando nel terreno acqua e prezioso materiale organico che, nel giro di pochi anni, lo rendono nuovamente fertile per altre colture meno resistenti. Un pregio non indifferente, soprattutto in un’epoca che testimonia l’inarrestabile avanzata dei deserti per via del riscaldamento climatico.
Ma il motivo per cui questo arbusto ha catalizzato di recente una grande attenzione e suscitato grandi speranze in tutto il mondo è un altro: dai semi della Jatropha si può ottenere un olio che può essere facilmente convertito in biodiesel, alla stregua di mais, soja, colza e palma. A differenza di queste, e qui sta la grande novità, si tratterebbe di un biocarburante “politically correct” che non contribuirebbe ad affamare al mondo: la Jatropha ha infatti dalla sua il vantaggio di non essere commestibile e di poter essere coltivata su terreni inadatti alle colture alimentari, con le quali dunque non entra in conflitto. Si tratterebbe per di più di un biocarburante ecosostenibile perché dalla sua combustione si libera solo tanta anidride carbonica quanta ne era stata sottratta dall’atmosfera dalla pianta durante la sua crescita. Al momento attuale, un ettaro coltivato a Jatropha permette di produrre in media 1400 litri di biodiesel, un valore di tutto rispetto, superiore a quello del mais (1100 l) , della colza (700 l) e della soja (400 l). L’olio della Jatropha, infine, può essere ottenuto in maniera relativamente semplice a partire dai semi con delle rudimentali presse meccaniche. Dallo scarto della spremitura si ricava un fertilizzante naturale.
C’è chi sostiene addirittura che questo piccolo arbusto abbia il potenziale di rivoluzionare gli equilibri geopolitici del pianeta e di creare ricchezza e migliaia di posti di lavoro nei paesi più poveri del terzo mondo. Secondo alcune stime, un paese come il Madagascar potrebbe raggiungere l’indipendenza energetica in biocarburanti destinando solo l’1% del suo territorio (4000 Km2) alla coltivazione della Jatropha. Coltivando la Jatropha per produrre l’energia direttamente in loco, gli 80 000 villaggi Indiani attualmente sprovvisti di carburante e elettricità potrebbero uscire dall’indigenza energetica nella quale versano attualmente, catalizzando così il proprio sviluppo economico, il tutto, per di più, nel più assoluto rispetto dell’ambiente. Paradigmatico è il caso delle 160 suore Vincenziane del convento di Mbinga, in Tanzania, che presto raggiungeranno l’indipendenza energetica attraverso un sistema ibrido che sfrutta l’energia solare di giorno, e quella prodotta da un generatore azionato da olio di jatropha, da loro prodotto, la notte. Suona davvero come una bella favola moderna.
… e delle multinazionali
Della Jatropha parla in toni entuasiasti persino il Sig Hass, portavoce della fondazione ambientalista Tedesca “Heinrich-Böll”, tradizionalmente scettica nei confronti dell’ecosostenibilità dei biocarburanti. Ma ci tiene a fare un importante distinguo: “La fondazione sostiene esclusivamente un modello produttivo decentralizzato, all’interno del quale la coltura e la produzione di biocarburante rimangano appannaggio esclusivo delle comunità locali. In tal caso la Jatropha ha indubbiamente un grosso potenziale nel favorire lo sviluppo delle microeconomie locali”. Decisamente diverso se non addirittura opposto l’approccio della multinazionale britannica D1 oil e del colosso energetico BP, che mirano a fare dell’olio di Jatropha un biodiesel da destinare all’esportazione verso i paesi industrializzati. I due colossi hanno recentemente fondato una joint-venture, di nome “D1-BP fuel crops limited”, con lo scopo dichiarato di diventare i principali produttori mondiali di biocarburante estratto dalla Jatropha. Ascoltando le cifre snocciolate al telefono da Prince Graham, entusiasta portavoce della D1 oil a Londra, mi ci vuole poco per convincermi che il mercato della Jatropha prenderà presto proporzioni immense: “L’accordo tra D1 oil e BP prevede che nei prossimi cinque anni vengano investiti nel business della Jatropha 160 milioni di dollari. Entro i prossimi 4 anni destineremo un milione di ettari di terreno alla Jatropha. Questa superficie aumenterà poi regolarmente di 300 000 ettari all’anno per raggiungere un totale di 2 milioni e mezzo di ettari nel 2016”.
Un business che fa gola a molti, soprattutto ai governi di molti paesi in via di sviluppo, che, accecati dal miraggio dell’”oro verde del deserto”, intravedono nella Jatropha la possibilità di trasformarsi in nuove Arabie Saudite del XXI sec. Se la fase di test, attualmente in corso, darà esito positivo, l’India prevede di destinare entro il 2011 dodici milioni di ettari alla Jatropha. La Cina ne destinerà tredici milioni già entro il 2010. Un nuovo soggetto nello scacchiere geopolitico internazionale di nome OJEC (Organization of Jatropha Curcas Exporting countries) rimpiazzerà forse presto l’OPEC? Chissà. Siamo appena all’inizio, eppur la realtà è che la Jatropha è già stata convertita in un agrobusiness come tanti altri, gestito da poche multinazionali che controllano l’intera catena di produzione, dal seme (da loro brevettato) al carburante. La favola comincia a prendere tinte fosche.
Molti dubbi
Anche se alla D1 oil assicurano che le loro coltivazioni di Jatropha impegneranno esclusivamente “terreni marginali o aridi, non utilizzabili altrimenti, la cui coltivazione darà lavoro e ricchezza a migliaia di persone nei paesi più poveri, soprattutto donne”, risulta difficile non nutrire qualche dubbio sull’ecosostenibilità e sulla fairness di tali piantagioni su larga scala pensate per il mercato globale. Tanto per cominciare occorre tenere presente che la Jatropha, pur essendo in grado di sopravvivere anche in assenza di cure e su terreni semi-desertici, ha una resa ben cinque-sei volte superiore se viene coltivata su terreni fertili e irrigati. È quindi molto probabile che, contrariamente a quanto annunciato da multinazionali e governi, competerà con altre colture alimentari per la terra fertile e per l’acqua. I segnali d’allarme ci sono già. In India, recentemente, si sono già registrati casi di piccoli coltivatori cacciati dalle loro terre per far posto a grosse piantagioni di Jatropha. Casi analoghi sono stati denunciati in Indonesia e un po’ ovunque in Africa. Episodi che, per di più, autorizzano a dubitare che a beneficiare del business globalizzato della Jatropha saranno davvero i piccoli coltivatori locali, come sbandierato orgogliosamente dalla D1 oil. Anche Ralph Suedhoff, portavoce del Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite, la più grande organizzazione umanitaria del mondo, si dichiara scettico a riguardo: “Da alcuni anni incoraggiamo e finanziamo la coltivazione di Jatropha Curcas in numerose regioni del pianeta. Siamo convinti che questa pianta, se coltivata su terreni marginali, e se utilizzata per la produzione di carburante da utilizzarsi su scala regionale, abbia un grosso potenziale per aiutare i paesi più poveri a uscire dal sottosviluppo, soprattutto in quelle regioni del mondo sprovviste di elettricità e carburante. Ma se il mercato della Jatropha verrà davvero controllato da un solo grande gruppo, come la D1-BP fuel crops limited, si genererà una situazione di monopolio, dove i prezzi di acquisto del raccolto verranno decisi unilateralmente dalla multinazionale, e non dai contadini. Molti di essi, potendo disporre di risorse estremamente limitate, sia in termini di acqua e terra che denaro, dovranno scegliere tra la coltivazione della Jatropha o quella del cibo per la loro sussistenza. Si troveranno quindi nelle mani della multinazionale, che potrà disporre di loro a piacimento, fino al punto di costringerli a vendere a prezzo stracciato le loro terre. Per questo finanziamo già da ora la nascita di associazioni tra i piccoli coltivatori perché non perdano del tutto il loro potere contrattuale.”
Dubbi condivisi addirittura da uno dei più strenui e entusiasti difensori della Jatropha, il filosofo svizzero Jean-Daniel Pellet, autore del libro “Jatropha Curcas, il migliore dei biocarburanti: impiego, storia e futuro di una pianta straordinaria”: “Intravedo dei rischi associati ad una sua coltivazione intensiva, operata da imprenditori senza scrupoli, fuori dal suo contesto naturale, su terreni dove potrebbe più che prosperare, perturbando così gli equilibri vegetali, inducendo un disequilibrio nella piramide alimentare e dunque una perdità di biodiversità. La Jatropha è una pianta straordinaria, un vero e proprio dono della natura che potrà aiutarci a uscire fuori dall’attuale impasse climatica. O forse solo ad aggravarla. Tutto dipenderà se l’umanità saprà farne buon uso.”
Pubblicato su SLOWFOOD 34, Giugno 2008