di Michele Fossi
Non capita tutti i giorni di vedere una pastora luterana mettersi a tracolla un fucile poche ore dopo aver celebrato una liturgia. Ma la cosa non stupisce più di tanto se ti trovi a Longyearbyen, il centro abitato più a Nord del mondo, e il più popoloso (si fa per dire, visto che in tutto si contano poco più di duemila anime) dell’arcipelago delle Svalbard. Una terra selvaggia e inospitale, ricoperta in massima parte dai ghiacci e condannata, da metà ottobre a metà febbraio, al buio perpetuo, dove l’orso polare vive allo stato brado: motivo per cui tutti gli abitanti di Longyearbyen, non appena escono dal perimetro cittadino, sono tenuti per legge a portare sempre con sé un fucile, ministri di Dio inclusi. «Il rischio di un faccia a faccia con l’orso è in realtà remoto», spiega Siv Limstrand, sacerdotessa della chiesa di Longyearbyen, la prima donna a ricoprire questa carica negli oltre cento anni di storia del lontano avamposto. «A Spitsbergen, l’isola delle Svalbard dove sorge Longyearbyen, se ne contano solo 300 esemplari, su un totale di 3000 presenti nell’intero arcipelago. Animali schivi, solo di rado si avvicinano all’uomo». È consigliabile comunque non sfidare la sorte. Ne sa qualcosa il precedente pastore della chiesa. Il suo unico incontro col grande mammifero in tanti anni di servizio, si racconta in paese, non fu dei più sereni: solo grazie ad un provvidenziale colpo di fucile sparato in aria, il religioso riuscì a salvarsi dall’ improvvisa carica di un’orsa affamata.
Camminando a fatica tra la neve alta, gli occhiali da sci calati sugli occhi per proteggersi dalle raffiche del vento, la prelata racconta di avere problemi ben più pressanti degli orsi a cui pensare. Il suo arrivo alle Svalbard, nel 2019, coincide infatti con un periodo particolarmente denso di cambiamenti per l’isolata parrocchia. «Tra due anni, in linea con gli obiettivi del governo norvegese di riduzione delle emissioni di CO2, verrà chiusa l’ultima miniera di carbone ancora attiva oggi a Longyearbyen, quattro anni prima di quanto precedentemente annunciato. Si concluderà così una lunga storia di sfruttamento minerario, iniziata nel 1906, che obbligherà la nostra comunità a reinventare se stessa». Da oltre un secolo, l’identità di Svalbard è legata a doppio filo al carbone. Seppur formalmente amministrata dalla Norvegia, l’arcipelago, in base all’omonimo trattato del 1920, costituisce un raro caso di “condominio” di ben quarantasei diversi paesi segnatari, tutti ugualmente autorizzati a sfruttare l’arcipelago per l’estrazione mineraria. Un diritto esercitato in passato, oltre alla Norvegia, soprattutto dall’Unione Sovietica, che tra queste isole, a poche ore di rompighiaccio da Longyearbyen, ha costruito alcuni insediamenti minerari di raro fascino: Barentsburg, attualmente abitata da seicento cittadini russi; e Pyramiden, abbandonata nel 1998, e da allora suggestiva città sovietica fantasma. «Per i minatori, l’annuncio della chiusura anticipata della miniera è stata una doccia fredda, che porta con sé innumerevoli punti interrogativi sul futuro. Difficilmente troveranno un nuovo impiego nei due settori ai quali il remoto arcipelago più guarda per la sua riconversione economica: l’industria del turismo e la ricerca scientifica, che nelle Svalbard vede un punto di osservazione privilegiato per studiare sia i cambiamenti climatici che la fauna e flora artica».
«In questo ultimo periodo, i minatori e le loro famiglie vengono spesso in chiesa a cercare un po’ di conforto», racconta la religiosa, che al suo attivo ha venticinque anni di esperienza come “pastora di strada” a Trondheim, durante i quali ha raffinato l’arte di consolare persone in difficoltà, in particolare le vittime di dipendenze e abusi e i malati di malattie incurabili. «Ad esacerbare il clima di incertezza che si respira nell’arcipelago, vi è poi la grande inquietudine dovuta al cambiamento climatico, che alle latitudini artiche procede al doppio della velocità rispetto alle latitudini temperate. L’innalzamento repentino delle temperature, già oggi superiori di 4 gradi in media rispetto al recente passato, ha reso la vita alle Svalbard molto più pericolosa per i suoi abitanti. Il ghiaccio ha perso la consistenza di una volta, il che si traduce in maggior rischio di valanghe e di formazione di pericolosi crepacci. Recentemente, il vecchio cimitero di Longyearbyen è stato investito da una slavina, per fortuna in un momento in cui era deserto. La scomparsa della neve su aree molto estese, durante i mesi estivi, rende infine più ardua per gli orsi la caccia della foca, spingendoli ad includere nella loro dieta un animale, la renna, di cui non vanno particolarmente ghiotti, e rendendoli potenzialmente più inclini ad avvicinarsi all’uomo».
Lungi dall’essere aperta solo lo stretto necessario per officiare le funzioni religiose, com’è consuetudine per le piccole chiese di provincia, “la chiesa più a Nord del mondo”, spiega orgogliosa Limstrand, «è aperta ventiquattr’ore su ventiquattro, tutti i giorni della settimana. Offriamo inoltre “ospitalità spirituale” a tutti, indipendentemente dalla confessione religiosa. A dispetto dello sparuto numero di abitanti, a Longyearbyen, città di frontiera, si contano ben quaranta nazionalità diverse, e qui vivono anche alcuni seguaci di religioni non cristiane, soprattutto buddisti di provenienza asiatica. Pur essendo loro vietato celebrare in chiesa veri e propri riti religiosi, la frequentano regolarmente alla ricerca di un momento di raccoglimento, o semplicemente di calore umano, merce particolarmente preziosa in questa gelida terra». L’architettura stessa dell’edificio ne tradisce la natura di luogo di accoglienza e convivialità, oltre che di culto: la tradizionale area destinata alla liturgia, con l’altare e le panche, è preceduta da una ancora più spaziosa area “lounge”, arredata con tavoli, sedie e comodi divani, e attrezzata con una piccola cucina e l’immancabile macchina del caffè a filtro. In una stanza loro dedicata, i bambini possono giocare indisturbati tutto il giorno. «Più che officiare cerimonie, il mio lavoro quotidiano consiste nel parlare con gli abitanti di Svalbard e far loro compagnia. E quando necessario, improvvisarmi psicologa e aiutarli ad attraversare le loro crisi esistenziali, che l’attuale clima di incertezza che aleggia sul futuro dell’arcipelago contribuisce a rendere più profonde e frequenti», spiega. Il “Mal d’Artico”, poi, ci mette del suo. «Molte delle persone che decidono, ogni anno, di trasferirsi in questa sperduta landa, lo fanno, più o meno consciamente, per sfuggire ai propri mostri interiori. Dimenticando che, davanti a queste sterminate distese di ghiaccio e neve, le verità più scomode affiorano in superficie più forti che mai. Svalbard è anche questo: una terra che obbliga a fare i conti con se stessi, dalla quale si fa ritorno immancabilmente cambiati».
Pubblicato su D – La Repubblica, gennaio 2022
Text by Michele Fossi
Photos by Guia Besana
