From gay icons to queer icons

Il fenomeno icona gay e la sua evoluzione.

di Michele Fossi

Cos’è quel quid, quel fluido magico, che scorre nelle vene di alcune celebrity, soprattutto cantanti e attrici, che le qualifica come icone gay?  L’annosa questione, dibattuta per decenni da antropologi, sociologi e storici del costume, annega nell’ineffabile. Eppur qualche tratto ricorrente tra le varie “divine” che si sono succedute nei decenni è possibile scorgerlo. Il primo che balza agli occhi è la forza: molte di loro, Madonna, Lady Gaga, Naomi Campbell ne sono un esempio, si presentano come donne indipendenti ed emancipate, simboli viventi di ribellione a quel sistema patriarcale che, storicamente, opprime in simil misura donne e uomini non eterosessuali. Jack Guinness, autore di The queer bible (Harpercollins publisher), spiega la cosa scomodando il subconscio. «Spesso vittima in gioventù di bullismo e discriminazione per il proprio lato femminile, l’uomo gay, in una sorta di transfert psicologico, deputa a queste donne vigorose e corazzate, che brandiscono la loro femminilità come un’arma, il proprio riscatto». 

«La ricorrenza dell’attributo della forza tra le icone gay non deve tuttavia indurre a credere che tutte siano figure vincenti. Al contrario, molte di loro, si pensi a Lady D, Maria Callas e Liza Minnelli, presentano, nella loro biografia, pagine di grande sofferenza», osserva Paolo Armelli, autore de L’arte di essere Raffaella Carrà (Blackie Edizioni). «Punite per essersi ribellate al sistema, alcune di queste figure femminili ne escono schiacciate, se non addirittura – è il caso di Giovanna d’Arco, anch’essa indiscussa icona gay – arse vive. Gli uomini gay, riconoscendosi in quel dolore, non esitano a includerle nel loro pantheon». L’icona gay, osserva inoltre lo scrittore, è poi tradizionalmente una figura glamorous, camaleontica, trasformista: attraverso gli abiti, più o meno pacchiani, incarna la possibilità di trasformarsi in qualcosa di diverso e meraviglioso dove non c’è spazio per imbarazzo e vergogna. Outfit audaci, con tutte le gradazioni dal fabulous all’ improbabile, che paiono gridare al mondo: Sono così, prendere o lasciare. Un messaggio confortante per chiunque, prima del coming out, viva nell’angustia dell’armadio: ogni bocciolo, anche il più insignificante e grinzoso, può trasformarsi un giorno nel fiore più bello del giardino. (Una caratteristica, quella dell’uso dell’abito a fini trasformativi e come espressione di auto-accettazione, portata all’estremo dalle drag queen, molte delle quali non a caso, si pensi alla musa di John Waters Divine, “la drag queen del secolo”, sono state in passato insignite dalla comunità lgbtq+ del divino titolo). 

«Raffaella Carrà», prosegue Armelli, «riuniva nella stessa persona tutte queste caratteristiche. Si definiva tuttavia «icona gay suo malgrado», nel senso che non fece nulla di espressamente gay-friendly per ricevere un simile onore (e onere). Le persone queer, però, la riconobbero subito e ne furono folgorati. Come quando si distingue tra la folla un volto familiare», scrive lo scrittore nel libro. «Raffaella raccontava: Ho cominciato a capire il mondo gay dalla prima “Canzonissima”, quando iniziai a ricevere lettere di ragazzi disperati per le incomprensioni con la famiglia, pronti a uccidersi. Per un’artista come lei, circondata da ballerini, coreografi, truccatori e tanti altri artisti molti dei quali gay, la mancata accettazione, dolorosissima, da parte dei genitori di questi ragazzi era qualcosa di incomprensibile. Allora Raffaella rispondeva, scriveva ai fan che non c’era nulla di sbagliato in loro, che dovevano «accettarsi»: una Gay helpline ante litteram”.  

A suggellare il legame tra un’icona gay e la propria fanbase, vi è spesso proprio questo ruolo di madre adottiva e affettuosa portavoce delle istanze e della sofferenza della  comunità lgbtq+. «Durante i primi anni dell’epidemia di HIV, fino al 1987, il governo americano omise criminosamente non solo di affrontare, ma addirittura di menzionare il problema HIV, derubricandolo come problema di serie B, con le tragiche conseguenze che tutti conosciamo», ricorda Walt Odets, autore di Out of the Shadows, The psychology of gay men’s lives. «In quegli stessi anni, Liz Taylor si spese personalmente per colmare quella lacuna comunicativa, soprattutto quando il suo grande amico Rock Hudson scoprì di essere anche lui contagiato. Contribuendo come pochi altri a combattere lo stigma, si fece molto più che portavoce dei gay: si presentò come loro amica». 

«Il legame tra un fan gay e la sua gay icon, a pensarci bene, altro non è che una forma di amicizia, seppur vissuta a distanza, simile a quelle che gli uomini gay solitamente costruiscono, nella loro vita quotidiana, con certe donne emancipate, forti e indipendenti nella loro famiglia o nella loro cerchia di amicizie», prosegue lo psicologo. «A legarli è un legame solido, speciale, che scaturisce dall’incontro di due sensibilità – quella gay e quella femminile – altamente compatibili, capaci di interagire in maniera proficua e profonda, grazie anche ad una comune inclinazione a vivere vite interiori complesse, statisticamente più rara tra gli uomini eterosessuali». 

«Se un tempo non lontano l’Olimpo delle icone era popolato soprattutto da donne eterosessuali vicine alla comunità lgbtq+, oggi, col progressivo aumento di visibilità per la comunità lgbtq+,  assistiamo alla nascita di tutto un sottobosco di icone queer, che della comunità sono membri a tutti gli effetti», osserva Samuel Alexander,  autore de The Little Book of Queer Icons (Summersdale Publishers Ltd), un prezioso compendio di icone queer, da Oscar Wilde, Marlene Dietrich e Freddy Mercury fino a nomi meno scontati, degni di essere conosciuti da un pubblico più ampio: come Marsha P. Johnson (la drag queen che, secondo la leggenda, avrebbe scagliato la prima pietra durante le proteste di Stonewall), Sylvia Rivera e Li Yinhe, figura chiave nella storia lgbtq+ in Cina e pressoché sconosciuta in Occidente. «In passato le vite e gli amori di uomini e donne gay non erano presenti nella cultura tradizionale, il che ci ha costretto a rappresentare la nostra lotta per mezzo di storie codificate. Si pensi alla Dorothy interpretata da Judy Garland  nel Mago di Oz, tra le massime gay icon di sempre: infelice a casa, si mette alla ricerca di una nuova famiglia disadattata, trovando alla fine l’amore e l’accettazione di sé», aggiunge Guinness.  «Oggi, col proliferare di celebrity orgogliosamente queer come Lil Nas X, i giovani lgbtq+ possono finalmente identificarsi in star che gli assomigliano, senza più bisogno di interposte persone. Indubbiamente un enorme passo avanti rispetto al passato». 

A risuonare con la gen Z, in particolar modo, è oggi la battaglia per l’accettazione della fluidità di genere. Da Arca a Elliot Page fino a Miley Cyrus, le nuove icone queer sono spesso e volentieri non-binary, trans e genderfluid. A conquistare i favori dei giovanissimi è anche Zendaya, protagonista della serie Euphoria: da tempo volutamente ambigua sui propri gusti sessuali, si è conquistata definitivamente il titolo di icona lgbtq+, lo scorso anno, rispondendo alla domanda: Cosa ti piace in un uomo?, con una risposta che suona come  invito ad andare oltre gli stereotipi di genere:  Non sarebbe meglio chiedermi cosa mi piace in una persona?  

Col passare delle generazioni, cambia infine non solo la natura, ma anche la provenienza delle icone, sfornate oggi non più solo dall’industria musicale e quella cinematografica, ma anche da nuove realtà come Tik Tok. È il caso del trans man Jesse Sullivan, 2.5 milioni di follower sulla piattaforma cinese, protagonista dell’attesa serie documentaristica Netflix  My transparent life, dedicata alla sua transizione. Lo scorso giugno è stato inserito nella lista Tik Tok LGBTQ+ trailblazers, la lista di icone queer sulla piattaforma. Per scoprire i nomi delle icone queer care alla Gen Z — dalle drag queen Coyle Twins, al fashionista Seth Sanker, fino a Lisa e Pope, una coppia di creativi che ha raggiunto grande notorietà sulla piattaforma con video nei quali si ritraggono come una famiglia adottiva online per tutti i giovani lgbtq+ –  ormai è qua che bisogna rovistare.

Pubblicato su Vogue Italia, luglio 2022

https://www.vogue.it/news/article/chi-sono-le-icone-gay-madonna-lady-gaga-raffaella-carra-liza-minnelli

Raffaella Carrà (c) Angelo Deligio
Lady Gaga Jamie McCarthy/Getty Images
Britney Spears e Madonna  Christopher Polk
Italian TV presenter, actress, singer and showgirl Raffella Carrà  (Raffaella Maria Roberta Pelloni) looking into the camera raising her arms and keeping her hands in the hair. 1984. (Photo by Rino Petrosino/Mondadori via Getty Images)Mondadori Portfolio/Getty Images

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