L’archivio di Massimo Osti è una cornucopia di invenzioni di moda, tutte da scoprire
Il designer bolognese, che ha lanciato marchi come C.P. Company e Stone Island, era un vero innovatore. E il suo archivio bolognese lo dimostra
Di Michele Fossi
di Michele Fossi
Contro la consuetudine che vede i fondatori di un’azienda augurarsi che i figli ne prendano un giorno le redini, Massimo Osti aveva espresso chiaramente il desiderio che Lorenzo e Agata facessero altro nella vita, imboccando ciascuno la propria strada, il più possibile lontano dall’industria della moda. «La morte prematura di nostro padre, nel 2005, ci pose davanti a un dilemma: cosa fare della sterminata mole di capi di vestiario, campioni tessili e prove tecniche conservate nei magazzini dell’azienda?», racconta Agata Osti, figlia dell’imprenditore e inventore tessile bolognese, noto al grande pubblico per aver lanciato i marchi C.P. Company e Stone Island, oltre che per innumerevoli innovazioni nel settore tessile, dall’invenzione della lana smerigliata e della Rubber Wool fino alla procedura di colorazione su capo finito detta tinto in capo. «All’idea di vendere il prezioso contenuto di quell’archivio in lotti separati, pregiudicandone così irrimediabilmente l’integrità, ci c disi strinse il cuore dover mandare tutto al macero, ci si strinse il cuore. Decidemmo così di interrompere le nostre rispettive carriere, consci di andar contro ai desiderata di nostro padre, e di prendere in mano l’eredità storica del suo lavoro». L’anno successivo, presso la sede del Massimo Osti Studio in via Castelfidardo a Bologna, vede la luce l’Archivio Massimo Osti. Aperta al pubblico su prenotazione, la struttura fornisce una panoramica sulla vulcanica attività dello stilista e inventore, raccontandone al contempo la peculiare filosofia creativa, per l’epoca insolitamente multidisciplinare e fortemente improntata sulla sperimentazione.
«Pur trattandosi di un archivio tessile, sarebbe tuttavia sbagliato vedere nell’Archivio Massimo Osti un luogo d’interesse solo per appassionati di moda e addetti ai lavori: l’archivio Massimo Osti è un tempio all’arte del pensare fuori dagli schemi, out of the box, concepito per ispirare chiunque lavori in un settore creativo», spiega Agata.
«In un epoca in cui l’ abbigliamento formale era separato a compartimenti stagni da quello militare, professionale e sportivo, nostro padre prese a sperimentare ibridazioni tra questi diversi guardaroba, nella convinzione, che non lo avrebbe mai abbandonato nel corso della sua vita, che l’innovazione vada cercata nell’interfaccia tra discipline e settori apparentemente lontani tra di loro». È risaputo che le celeberrime Explorer Jacket e Google Jacket – forse i suoi due capi più iconici, contraddistinti da lenti di vetro inserite, rispettivamente, nel bavero e nel cappuccio calabile – furono ispirate dalle maschere a gas d’uso bellico e dagli occhiali da pilota; la Zeltbahn Cape, la mantella multi-uso che segna la nascita del secondo marchio fondato da Osti, Stone Island, fu invece ispirata dalle giacche militari dell’esercito tedesco, facilmente convertibili in tende e in barelle.
La Zeltbahn Cape è realizzata nel materiale principe di Stone Island, la tela stella, la cui scoperta, racconta Lorenzo Osti, fu originata da un incidente di percorso. «Nel 1979, un nuovo modello di giacca C.P. Company dovette essere ritirato in toto dal mercato perché stingeva al primo lavaggio. Lungi dall’abbattersi, nostro padre rimase affascinato dai colori slavati di quei resi, e si mise in testa di ricreare quell’effetto in laboratorio, con l’idea di sfruttarlo commercialmente. Scegliendo il cotone grezzo come base tessile, dopo innumerevoli prove colore mise a punto un nuovo materiale capace di evocare le slavature di colore dovute alla salsedine del mare, cui il marchio dovrà parte del suo successo. «Convinto che le idee più dirompenti nascano quasi sempre a seguito di fallimenti e incidenti di percorso, nostro padre aveva incorporato la ricerca sistematica dell’errore nella sua pratica di imprenditore, testando maniacalmente ogni sua idea con centinaia e centinaia di prove di laboratorio, nella convinzione ostinata che le idee veramente innovative e dirompenti amino beffardamente nascondersi nel sacco delle idee sbagliate».
«Oltre alla sua curiosità a 360° e un’attitudine irriverente, che lo spronava a pensare fuori dagli schemi, a dare a nostro padre una marcia in più, nel corso di tutta la sua carriera, fu indubbiamente la sua formazione da grafico», spiega Lorenzo Osti. «Mi vedo come un comunicatore, prima ancora che come uno stilista, soleva dire. Forte della sua esperienza di grafico, ha sempre voluto curare da sé la comunicazione dei propri marchi, invece di affidarla, com’era fino a pochi anni fa prassi comune, a specialisti del settore». Nel 1985 Osti lancia C.P. Magazine, la rivista con la quale ha raccontato per anni i suoi prodotti attraverso concettuali still life, al posto delle consuete immagini lifestyle, celebrata come pietra miliare dell’editoria branded. Se i magazine aziendali dell’epoca erano distribuiti gratuitamente, decise che il suo era di tale pregio artistico da meritare di essere venduto in edicola. E così fu: raggiungendo tirature di 50.000 copie per numero, C.P. Magazine si rivelò un vero e proprio caso editoriale. «Prima di altri, nostro padre aveva intuito che il capo di moda fisico e la sua comunicazione altro non sono che due diverse manifestazioni della stessa idea, e dunque entità inseparabili, da concepirsi idealmente insieme, in house. Un modus operandi all’epoca rivoluzionario, e che oggi, sulla spinta dei social media, è divenuto prassi comune nella nostra industria», osserva Agata. «Ma soprattutto, aveva intuito che un trademark, attraverso un’opportuna comunicazione, potesse essere trasformato in un lovemark», aggiunge Lorenzo. «Non un mero produttore di capi di abbigliamento come tanti altri, bensì una fucina di contenuti culturali e suggestioni, attraverso i quali far innamorare i consumatori del brand».