Compagni di scuola
Un colpo di fulmine, e un sodalizio che dura da trent’anni. Il fotografo Willy Vanderperre e lo stylist Olivier Rizzo raccontano i loro esordi. Quando non avevano uno studio, né budget, ma l’esigenza (e la libertà) di fare tutto a modo loro. Tra modelli improvvisati, scatti fortunati nati sperimentando, emblema di una fotografia pura, autentica e poetica ieri come oggi.
di Michele Fossi
Galeotto fu quel primissimo giorno di università, il 2 ottobre 1989, alla Royal Academy of Fine Arts di Anversa. Willy Vanderperre e Olivier Rizzo si urtano per sbaglio in un corridoio, si piacciono, iniziano a frequentarsi assiduamente anche dopo i corsi. Prende avvio così una storia d’amore, e pochi mesi dopo anche un sodalizio artistico, che durano ininterrotti da oltre trent’anni. Lavorando il più delle volte in coppia – Olivier nel ruolo di stylist e Willy di fotografo –, il duo creativo belga negli anni ha collezionato collaborazioni con i più importanti marchi di moda, da Prada a Christian Dior, da Jil Sander a Miu Miu, senza dimenticare Raf Simons, loro concittadino e amico dai tempi dell’università. «Fu un coup de foudre!», ricorda Rizzo. «Ci consideriamo molto fortunati per aver trovato l’uno nell’altro, già così giovani, un partner creativo. Nella nostra scuola, in quegli anni, si respirava un’aria carica di elettricità: il successo, a partire dal 1988, dei “Sei di Anversa” (il collettivo di stilisti d’avanguardia composto da Dries Van Noten, Ann Demeulemeester, Dirk Van Saene, Walter Van Beirendonck, Dirk Bikkembergs e Marina Yee, ndr), aveva acceso un faro sulla nostra piccola città, catapultandola sul proscenio internazionale della moda. Fremevamo tutti per lanciarci in quell’arena».
Dopo una prima sessione di foto insieme nel backstage della sfilata di fine anno all’università, i due iniziano a sperimentare con giovani modelli e modelle reclutati col casting di strada. «Più do-it-yourself di così quel periodo non poteva essere!», osserva lo stylist. «Scattavamo sempre da soli, senza assistenti. Unica eccezione il nostro amico Peter Philips, che ogni tanto si univa agli shooting in qualità di make-up artist. Non avevamo uno studio: tutti i nostri primi servizi sono venuti alla luce o nello Stadspark (il parco dove il duo ha ambientato la serie Forever I Am part of You and Me, dalla quale fu estratta la celebre cover del numero bestseller di iD del febbraio 2001 curato da Raf Simons, così come il servizio di questo mese per Vogue Italia, ndr), oppure all’interno della nostra prima casa nel quartiere di Mechelseplein. Willy passava le notti a sviluppare i negativi in bagno e a stamparli: la vasca era rovinata dagli acidi; l’aria, con l’unica finestra sigillata col nastro per pacchi, era perennemente impregnata del pungente odore di sostanze chimiche». «A forza di respirare quei veleni, la mia faccia era diventata verdastra!», scherza Vanderperre. «Era un appartamento dalle ampie finestre e dalle pareti riverniciate spesso di bianco, perché potessimo utilizzare ogni raggio di luce», aggiunge. «Ero infatti – e sono tutt’oggi – ossessionato dallo scattare con luce naturale. D’inverno questo significava avere solo poche ore a disposizione, ma non m’importava: volevo cogliere l’essenza dei modelli, senza artifici di sorta». «In quegli anni», spiega Rizzo, «c’era nell’aria un forte desiderio di rompere con l’estetica patinata ed artificiosa della foto di moda degli anni ’80. La fotografia “grunge”, per prenderne le distanze, si fece in quel periodo portatrice di un’estetica del brutto fine a se stessa; io e Willy scegliemmo invece la strada dell’autenticità, optando per un linguaggio fotografico scarno ed essenziale, senza tuttavia mai rinunciare al bello e al poetico. Dei nostri modelli, volevamo cogliere la quintessenza, l’anima: liberi come eravamo dai soffocanti vincoli temporali dei servizi di moda, ci concedevamo il lusso di spalmare i singoli shooting su più giorni, e di rivedere gli stessi modelli ripetutamente, il che ci ha permesso di sviluppare con loro profondi rapporti di amicizia». «Per non pregiudicare l’onestà delle foto, lo styling di Olivier», continua Vanderperre, «era in quei primi anni particolarmente delicato, leggero: solitamente lasciava che il modello tenesse i propri abiti, aggiungendo qua e là un solo capo alla volta, ottenendo così di valorizzarne la personalità, senza mai snaturarla. L’idea di trasformare i nostri soggetti in leccati damerini, in “fashion doll”, ci ripugnava».
«Se in quei nostri primi anni insieme lavoravamo in modalità DIY per necessità, in seguito, quando pure avevamo i budget per produzioni di tutto rispetto, ci siamo scoperti riluttanti a cambiare modus operandi e ad abbandonare la semplicità e autenticità dei nostri esordi», prosegue Vanderperre. «Da esigenza, il fai da te è passato così a essere la nostra signature: ancora oggi, come allora, inseguiamo un’estetica fotografica pura e onesta; ancora oggi, come allora, ci piace lavorare regolarmente con gli stessi modelli, molti dei quali, come Clement Chabernaud, Mica Arganaraz e Julia Nobis, nel tempo sono diventati anche amici, oltre che muse». Tra le presenze più fisse della prima produzione del duo figura il modello belga Robbie Snelders, protagonista di un famoso servizio pubblicato nel 1999 sul numero zero di V Magazine (“V0”), che lo ritrae col volto truccato da Mickey Mouse, e al quale i due devono un’improvvisa svolta nella loro carriera. «Anche quegli scatti fortunati nacquero un po’ per caso, durante uno di quei lunghi pomeriggi passati a sperimentare insieme. Io e Olivier avevamo deciso di provare alcuni scatti con delle T-shirt di Mickey Mouse, nostra comune passione d’infanzia, ma il risultato ci convinceva solo a metà», ricorda Vanderperre. «Poi Peter ci chiese: posso provare un’idea? Lui e Robbie scomparvero in bagno, che di giorno, dismessa la funzione di camera oscura, adibivamo in fretta e furia a camerino per il trucco. Un’ora e mezza dopo, riemersero, sorridenti. Con nostro stupore, sulla faccia di Robbie era disegnato Mickey Mouse».
Pubblicato su Vogue Italua, giugno 2021