Peter Doig in conversation with Alex Foxton

Le idee fissate su carta, la ricerca di “frammenti di dipinto” sparsi in natura, l’evoluzione dell’arte figurativa. Gli artisti Peter Doig e Alex Foxton riflettono su emozioni e ispirazione, mescolando moda, pittura, paesaggi, leoni, santi e sex appeal.

Peter Doigt: Per anni hai lavorato con successo come stilista, e solo da tre hai eletto la pittura figurativa a tuo nuovo lavoro. Com’è stato il tuo battesimo con questa disciplina artistica, Alex?

Alex Foxton: Sicuramente molto diverso dal tuo, Peter. Pensa che per vendere i miei primi quadri, non ho neanche avuto bisogno di una galleria: è bastato postarne le immagini su Instagram.

P.D. Ti farà sorridere sapere che alla tua età, nonostante fossi attivo come pittore già da dieci anni, non una sola immagine di un mio quadro circolava per il mondo; se volevi vedere i miei quadri, dovevi per forza  passare dal mio studio. La pittura figurativa, in quel periodo, era considerata “out” dalle gallerie londinesi, che esponevano quasi unicamente arte concettuale. Scegliere questa forma d’arte, allora, fu sicuramente il mio modo di ribellarmi al sistema, oltre che di assecondare la mia naturale inclinazione per la pittura di paesaggio.

A.F. Come nascono le idee per i tuoi paesaggi ? 

P.D. Di solito avviene che, durante una passeggiata, scorga nel paesaggio circostante un elemento… che mi colpisce per la sua qualità pittorica, quasi fosse un “frammento di dipinto” sperso nella natura: il mio quadro nasce poi lentamente attorno a questa prima immagine illuminante. La ricerca di questi “frammenti” si è fatta negli anni una vera ossessione: non smetto mai di cercarne di nuovi, e purtroppo capita che per lunghi periodi mi eludano, beffardi. Ahimè, l’ispirazione non è un interruttore, che si può accedere o spegnere a piacimento. E tu, invece, da cosa parti?

A.F. Dal disegno, senz’ombra di dubbio. Quando inizio un nuovo lavoro mi chiudo in studio a disegnare, come un ossesso, e non mi fermo fino a quando, fissati decine di questi schizzi alla parete, non inizio a scorgere i contorni di una storia. Mi è stato riferito che anche tu lavori molto con la carta prima di passare alla tela, vero? E non ho potuto non osservare che alle tue mostre sei solito esporre sia le grandi tele sia gli schizzi su carta. 

P.D. Sì, perché trovo che entrambi abbiano valore. Anzi, spesso le idee fissate velocemente su carta sono più interessanti, perché più fresche e genuine. Ma dimmi, quanto conta la ricerca preliminare nel tuo lavoro? 

A.F. Prima di iniziare a dipingere il mio ciclo dedicato a San Giorgio e il Drago, ho visionato migliaia di immagini di opere dedicate a questo motivo. Ma poi tutto si è rivelato pressoché inutile. 

P.D. Cosa è successo? 

A.F. Una domanda è affiorata un giorno nella mia mente: come si manifesta la carica sessuale di un uomo sul suo volto? Mi sono così ritrovato a scegliere come improbabile musa per il mio San Giorgio un attore porno ungherese, Arpad Miklos: l’epitome della mascolinità, con quella sua forte corporatura, la barba e una presenza matura. Alla fine, quando guardo i quadri, mi dico che il volto del mio San Giorgio, non assomiglia tanto neanche a lui. Ma sicuramente le sue fattezze sono scaturite da queste riflessioni sul sex appeal. Ma parlami della ricorrenza, nelle tue opere, della figura del leone, che ha segnato peraltro anche la tua recente collaborazione con Kim per la collezione Dior A/I 2021.

P.D. Da alcuni anni insegno pittura ai carcerati della prigione di Trinidad, un edificio di epoca coloniale che, fin dalla mia prima visita, mi ha fatto pensare a uno zoo per umani: al centro del cortile si trovano infatti delle enormi gabbie, tra le cui sbarre si intravedono i volti mogi di uomini appena arrestati in attesa di essere smistati o liberati su cauzione; molti di loro, di origine rastafari, sfoggiano folte chiome di dreadlock come criniere di leone. È nata così in me l’ossessione pittorica per la figura tormentata e triste del leone imprigionato, simbolo di virilità umiliata e sconfitta. 

E il tuo interesse per il Macbeth, invece, cui hai dedicato la tua ultima mostra alla Galerie Perrotin, da cosa nasce? 

A.F. Non saprei dirtelo. Ho approcciato questo nuovo progetto convinto di voler lavorare al tema dell’orgoglio e dell’ambizione, per poi ritrovarmi, come per il ciclo precedente, a realizzare opere intrise di violenza e cupa sessualità, profondamente diverse da come me le ero immaginate. Ancora una volta, essermi divorato tutti i film, documentari e dipinti sull’argomento è servito a poco: il pennello, alla fine,  è andato dove ha voluto lui. La pittura – mi appare sempre più chiaro – dà voce al subconscio. E che mi piaccia o meno, mi dice chi sono.

testo raccolto da Michele Fossi, pubblicato su Vogue Italia, aprile 2021

Peter Doig

Alex Foxton

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