Lontano dal silenzio delle metropoli in lockdown, ci sono angoli del Paese che nel silenzio vivono da sempre. Come il faro a picco sul Tirreno, da cui Gherardo Felloni racconta i suoi giorni sospesi.
È una giornata limpida all’isola del Giglio. Dall’alto della torre della sua insolita residenza marittima – un faro ottocentesco in pietra riconvertito ad abitazione – Gherardo Felloni racconta di poter vedere quasi tutte le isole dell’arcipelago: l’Elba, Montecristo, Giannutri. «Terre di esiliati illustri, a partire da Napoleone, e di quarantene coatte. Come la mia, del resto: ho lasciato Parigi a inizio marzo convinto di passare un weekend; ed eccomi qui col mio ragazzo, settimane dopo, a non sapere ancora quando potremo ripartire. Una bella doccia fredda, per tutti. Ma non posso che ritenermi fortunato a ritrovarmi bloccato in un luogo per me così speciale».
Circa sette anni fa, Felloni si mise alla ricerca di un buen retiro dove passare mesi a coltivare la terra, contemplare il mare, e creare moda. Da solo, in coppia, o in compagnia di pochi, selezionati amici. Nella sua fantasia, aveva vagheggiato le forme di un castello. Poi, nel 2014, l’incontro inatteso col faro delle Vaccarecce. «Un castello, quella diruta casa colonica in pietra, proprio non lo era. Ma con quella lunga torre del faro annessa ne aveva un po’ le sembianze. Un’impressione corroborata dal grosso calibro delle pietre della facciata e dalla sua ubicazione, sulla vetta di un’altura. Decisi così di rompere gli indugi, e di acquistarlo». Negli anni successivi, nel corso di brevi soggiorni, lo arreda come «si fa con i luoghi dove si spera, un giorno, di passare molto tempo», trasportando faticosamente sull’isola oggetti di design acquistati all’asta: grandi specchiere liberty, poltrone di Osvaldo Borsani in velluto verde e altre di Luigi Caccia Dominioni in mogano e pelle nera; tavolo e sedie Mackintosh in frassino; lampadari Venini in cristallo di Murano. Nelle stanze da letto, invece, colloca un letto d’hotel firmato Gio Ponti in legno con annessi mensole e comodini, e dei letti di Pomodoro di ottone.
Ma fino a questa inattesa piega degli eventi che lo blocca nel suo faro a tempo indeterminato, gli impegni parigini – prima l’incarico di direttore delle collezioni di scarpe di Dior e poi, da marzo 2018, di direttore creativo di Roger Vivier – gli impediscono di soggiornarvi per periodi lunghi. «Chi avrebbe mai pensato, solo pochi giorni fa, che sarebbe stata una microscopica entità a permettermi finalmente di realizzare questo sogno!», ironizza, passando poi a raccontare la sua nuova routine isolana. «Di mattina presto scendo in giardino a curare gli alberi di limone e le altre piante. Sarà perché sono cresciuto in campagna, nei dintorni di Arezzo, ho bisogno di un contatto con la terra per sentirmi pienamente felice: mi diverte zapparla, nutrirla, piantumarla. Cosa tutt’altro che scontata, ho trovato il modo di coltivare questa passione persino a Parigi dove, circa dieci anni fa, ho acquistato una casa con un piccolo terreno annesso». Finite le mansioni di giardinaggio, è la volta di tornare nel faro, sedersi davanti al computer e occuparsi di moda. «Ci sono le nuove collezioni da mandare avanti, e tanti piccoli progetti digitali a cui, in questi giorni di isolamento, riesco a consacrarmi con maggiore attenzione. Sono certo che questa permanenza forzata a casa, lontano dagli uffici, dimostrerà anche ai più increduli che il telelavoro, anche per un brand di moda, funziona piuttosto bene». Una rivelazione che – preconizza – spingerà nel corso della prossima decade molti professionisti del settore ad abbandonare, per gran parte dell’anno, le grandi metropoli a favore della provincia. «Lontano dal tran tran cittadino, non solo la qualità della vita è più alta; si scopre anche che le interazioni umane sono meno codificate, e piacevolmente più trasversali. Mentre nelle metropoli tendiamo a frequentare solo i consimili che popolano la nostra stessa “bolla” sociale, nei piccoli centri ci si trova ad avere lunghe e proficue discussioni anche con persone molto diverse per estrazione sociale, cultura, esperienze di vita. E se ne esce immancabilmente arricchiti».
Felloni si dichiara convinto che l’attuale crisi – che definisce «il primo vero momento di criticità in Occidente dai tempi della guerra» – ci trasformerà, e anche piuttosto in fretta, in cittadini del mondo migliori; in particolare più “attrezzati spiritualmente” per affrontare, a emergenza rientrata, la sempre più impellente e inderogabile crisi climatica. «Rimarremo i soliti consumatori bulimici? Ne dubito. I vincoli allo spostamento e le ristrettezze di questi giorni ci sbattono in faccia, dolorosamente, di aver dato tante, troppe cose per scontate, a partire dal cibo, la salute, la vicinanza fisica delle persone che amiamo.
E ci insegnano a discernere più saggiamente tra essenziale e superfluo, tra oggetti di cui ci scordiamo pochi giorni dopo averli acqui stati, e quelli, pochi, a cui siamo legati da un vincolo affettivo. Alcuni di essi si trovavano per mia fortuna nell’esiguo bagaglio a mano che ho portato al faro», racconta. «In questi giorni di isolamento forzato rifulgono ai miei occhi come di luce nuova… quasi fossero più preziosi. Mi riferisco ai miei amati pantaloni neri e camicie bianche: capi che costituiscono la mia “divisa” per gran parte dell’anno e di cui proprio non so fare a meno. E poi tre pezzi della mia collezione di gioielli antichi a cui sono particolarmente affezionato: un cammeo in onice col profilo di Ercole, incorniciato da una montatura di serpenti in oro, e due spille en tremblant di diamanti. Un provvidenziale sesto senso mi ha suggerito di metterli in valigia all’ultimo minuto. Adesso sono contento che siano qui con me, al faro, a farmi compagnia». ____________________
Pubblicato su Vogue Italia, Aprile 2020

