Designer indipendenti citano grandi brand con creazioni patchwork. E l’appropriazione del nome non è più un tabù.
Nell’autunno 2000 la sfilata dello stilista spagnolo Miguel Adrover si aprì con un colpo di scena: un impermeabile Burberry “modificato”, lavorato al rovescio e indossato al contrario, con la fila di bottoni lungo la schiena e l’etichetta blu dell’azienda britannica sfoggiata sotto il collo come un gioiello. Un’espressione di creatività dirompente, che fece gridare al genio la stampa di settore, ma anche una palese violazione del copyright. Risultato: lo stilista ricevette una secca diffida da parte degli avvocati di Burberry e fu costretto così ad abbandonare quell’originale (e per l’epoca incosciente) linea di lavoro inaugurata l’anno precedente, che lo aveva visto trasformare una borsa di Louis Vuitton in una gonna e incorporare i loghi di Ralph Lauren, Marlboro e Coca-Cola nelle sue T-shirt. Giù le mani dal logo, espressione ultima del dna di un’azienda! Ma le regole della moda, si sa, cambiano in fretta, ed ecco che, da qualche anno si registra il ritorno di designer indipendenti che – proprio come Adrover – dell’appropriazione e rielaborazione creativa dei loghi di altre aziende, in particolare quelli dei più noti marchi di scarpe sportive, hanno fatto la loro bandiera. All Amin, fondatrice di Haram with Sugar, si diletta a cucirli insieme per confezionare capi d’abbigliamento d’ispirazione cyborg, mentre Nicole McLaughlin li utilizza per decorare le sue calzature. E come non menzionare le sneaker con il tacco di Ancuta Sarca, curioso ibrido tra scarpe da sera e da ginnastica, con tanto di logo Nike in bella vista. Tutto merito del macro-trend dell’upcycling (ovvero del recupero creativo, in nome della sostenibilità, dello scarto e dell’invenduto), che ha portato con sé un’estetica del collage e dell’assemblaggio che investe ormai da tempo anche i loghi. Al punto che vederne anche più d’uno insieme nello stesso articolo, come avviene nelle creazioni di Duran Lantink, finalista dell’ultima edizione dell’Lvmh prize, non fa più gridare al ladro. Al contrario: suscitando un piacevole effetto sorpresa, l’“hackeraggio” del logo altrui si sta rivelando la strategia vincente con cui numerosi upcycler in erba – è il caso del collettivo tedesco Supalit e di Ari Serrano – sono riusciti a rompere il muro dell’anonimato su Instagram. «Oltre a manifestare, senza bisogno di tante spiegazioni in etichetta, la natura riciclata e sostenibile del prodotto, la pratica di incorporare nelle mie creazioni i loghi di altre aziende ha per me innanzitutto una finalità dissacrante», spiega Lantink. «Il logo, a partire dagli anni 90, è stato fatto oggetto di venerazione maniacale e troppo spesso, diciamoci la verità, è stato utilizzato dalle grandi aziende come cavallo di Troia per vendere merce non sempre convincente sotto il profilo creativo. Scherzarci sopra, con irriverenti operazioni di taglia e cuci, equivale a ribadire il primato della creatività». E le denunce per violazione del copyright? Nonostante nessuno dei progetti sopraelencati sia stato autorizzato dai marchi interessati, per il momento non se ne segnalano. «Soprattutto a seguito dei recenti scandali mediatici legati alla distruzione degli stock invenduti, le grandi case si guardano bene dal punire chi si adopera con la propria creatività per recuperarli. Sanno che potrebbe avere un effetto boomerang». Sarà che anche i grandi marchi, nel frattempo, hanno iniziato a giocare con la nuova estetica, mettendosi a citare, con un pizzico di ironia, i loghi di altre aziende: dalle T-shirt di Vetements con il simbolo Dhl alla borsa di Off-White ispirata alla rivista People, alle felpe di Supreme con variazioni cromatiche della scritta Champion o con gli acronimi Louis Vuitton, la “migrazione del logo”, forte della benedizione di grandi vati come Gvasalia e Abloh, è ormai una pratica ortodossa: ovvero moda. ______
Testo di Michele Fossi
Pubblicato su Vogue Italia, Marzo 2020
I capi del designer olandese Duran Lantink, creati con abiti destinati al macero
o con i deadstock dei fashion brand smontati e riassemblati, incorporano i loghi altrui
con una finalità dissacrante.