Interview with Shohei Shigematsu, director of architecture and urban design studio OMA – New York

Ci sono viaggi che segnano il destino. Decisiva per Shohei Shigematsu — dal 2006 direttore (e dal 2008 anche partner) dell’OMA-NY, la sede newyorchese del celebre studio di architettura fondato nel 1975 a Rotterdam da Rem Koolhas — fu una trasferta a Boston al seguito del padre quando era ancora bambino. «Quel mio primo viaggio fuori dal Giappone segnò anche il mio primo incontro con l’architettura occidentale. Fu un’esperienza a dir poco rivelatoria», ricorda il quarantatreenne architetto originario di Fukuoka, noto soprattutto per aver progettato la futuristica estensione del Whitney Museum (2001) e il celeberrimo “grattacielo circolare” della TV di stato cinese a Pechino (2012). «Abituato come ero al carattere temporaneo ed effimero delle abitazioni tradizionali giapponesi, si pensi alle tipiche pareti divisorie di carta, rimasi profondamente impressionato dall’imponenza dell’architettura americana, concepita per sfidare la gravità e l’usura dei secoli. Fu con tutta probabilità in quell’occasione che decisi, inconsciamente, di diventare un giorno architetto». In veste di direttore dell’OMA -NY, Shigematsu si è dedicato soprattutto alla progettazione di musei e centri culturali — come il Pierre Lassonde Pavilion di Quebec City, il “Faena Arts District” di Miami Beach e l’ “Audrey Irmas Pavilion” a Los Angeles — e di vertiginosi grattacieli, dalle forme spesso audaci: un esempio per tutti, gli “Shenzhen Stock Exchange Headquarters” (2013), una torre che pare poggiare, miracolosamente, su una base a forma di parallelepipedo sospesa a 36 metri dal suolo. Un progetto che mette ben in evidenza una delle caratteristiche più facilmente riconoscibili dell’estetica di Shigematsu: la ricerca dell’elemento “spettacolare” in architettura attraverso la giustapposizione di figure geometriche solide molto semplici. «Si potrebbe erroneamente pensare che i margini di manovra per sviluppare un’estetica personale, quando si ha come mentore un’ archistar planetaria,  dalla visione forte come Rem Koolhas, siano molto, molto limitati. E’ vero il contrario: per le questioni più prettamente estetiche, legate all’aspetto esteriore dell’edificio, Rem è famoso per essere un grande delegatore, e lasciare spesso carta bianca ai suoi collaboratori più giovani». Tra i meriti di Koolhas, vi è sicuramente anche quello di aver precocemente intuito la spiccata sensibilità per il sociale di Shigematsu, affidandogli negli anni numerosi progetti volti a migliorare le condizioni di vita nelle grandi metropoli del pianeta.  Tra i più recenti, il “New Civic Center” di Bogotà, in Colombia: «Costruito volutamente in un’area povera», spiega, «allo scopo di riqualificarla, è raggiungibile solo a piedi o con mezzi pubblici, così da sensibilizzare i cittadini alla necessità di un cambio di paradigma nel settore della mobilità». Oppure, a seguito dell’uragano Sandy, la nuova strategia per per la gestione dei rischi idrologici nel New Jersey, che Shigematsu lo scorso anno ha messo a punto insieme a un think-tank di esperti di discipline diverse. «Gli architetti modernisti del XX secolo volevano cambiare il mondo, ma hanno fallito perché volevano farlo da soli. Gli architetti della mia generazione vedono nell’Urban Design un potente strumento per raggiungere un obiettivo simile, plasmare le dinamiche che sottendono al funzionamento della società, ma hanno imparato che senza umiltà, senza una reale volontà di imparare da esperti di altri settori, e, soprattutto, senza ascoltare i reali bisogni delle persone, il cambiamento ottenuto non sarà mai né duraturo né realmente utile». Da un paio di anni decide di raccogliere il guanto di una nuova sfida: suggerire, per mezzo dell’Urban Design, nuovi paradigmi per la produzione e distribuzione degli alimenti nelle grandi città. E’ la missione dichiarata del “Food Port” di Louisville, un titanico progetto da 50 milioni di dollari per  trasformare un ex fabbrica di tabacco in un rivoluzionario centro per la coltivazione, la vendita e la distribuzione di cibo a chilometro zero in grandi quantità. « Allestire nelle piazze farmer market, dove il cibo, per via dei piccoli volumi, è caro e dunque appannaggio di una elite di benestanti, non basta: occorre mettere i piccoli produttori nella condizione di unirsi in cooperative, e, attraverso il “Food Port”,  abbattere i costi fissi e commerciare grandi volumi di cibo direttamente con grandi aziende. Penso a banche, compagnie aeree, multinazionali, che, con le mense aziendali, potrebbero finalmente far arrivare cibo di qualità sul piatto non di pochi privilegiati ma di centinaia di migliaia di persone, e simultaneamente, dare nuova linfa all’agricoltura virtuosa del territorio».  Eclettico, sempre alla ricerca di nuovi stimoli, Shigematsu nel suo unico pedigree può vantare anche collaborazioni — tanto eccellenti quanto insolite per un architetto — col mondo dell’arte contemporanea (Cai Guo Qiang, Marina Abramović), dell’hip pop (Kanye West) e persino con la moda: fu lui, nel 2004, a disegnare il concept di “Prada Waist down”, l’indimenticabile  mostra itinerante dedicata ad una collezione di 100 gonne disegnate da Miuccia Prada; poche giorni fa, in occasione del Met gala, ha aperto invece i battenti  “Manus x Machina: Fashion in the Age of Technology”, l’imperdibile mostra del  Metropolitan Museum of Art, da lui co-curata insieme ad Anna Wintour per il Costume Institute, dedicata al binomio artigianalità/automatizzazione nell’industria dell’alta moda dall’800 a oggi. «La relazione tra questi due aspetti, sempre meno antinomici oggi, verrà raccontata da una vasta selezione di abiti , di cui alcuni cuciti a mano ed altri a macchina. E’ una mostra incentrata squisitamente sull’importanza dei dettagli: per questo motivo ho deciso di foderare internamente tutto lo spazio espositivo di neutro tessuto bianco,  così da non distrarre l’occhio dello spettatore. Si potrebbe dire che il mio insolito compito da architetto, è stato, per una volta, quello di “far scomparire l’architettura”».

Pubblicato su L’Uomo Vogue, Maggio 2016

Photo credit: Erik Madigan Heck

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