Interview with cyclist Marcel Kittel

L’annus horribilis per Marcel Kittel, lo sprinter tedesco noto al grande pubblico soprattutto per essersi aggiudicato, sia nel 2013 che nel 2014, ben quattro tappe del Tour de France, è stato il 2015. Apparso improvvisamente fuori forma fin dai primi impegni della stagione, a causa di una serie di piccoli infortuni e soprattutto per via degli strascichi di un virus influenzale, lo scorso giugno il campione turingio si è trovato a dover ingoiare un boccone particolarmente amaro: la mancata qualificazione — che tutti, lui per primo, davano per scontata — al Tour de France, la competizione che neanche un anno prima lo aveva visto trionfare. “Non ci sono dubbi, questa è di gran lunga la fase più difficile della mia carriera”, dichiarò in quell’occasione. Pochi mesi dopo un nuovo colpo di scena: ad ottobre, chiede, ed ottiene, di poter rescindere anticipatamente il suo contratto con Giant-Alpecin, la sua squadra dal 2011.  «Quella di abbandonare la squadra con cui sono cresciuto è stata una scelta tanto sofferta quanto necessaria», confessa lo sprinter. «Dopo tanti alti e bassi, ho avvertito la necessità di una pausa di riflessione, e di far spazio ad eventuali nuovi scenari per ripartire con nuovo slancio». Una scelta che si rivela presto azzeccata: non passano neanche tre mesi che la fenice risorge improvvisamente dalle sue ceneri, più forte che mai. Sotto i colori della belga Etixx-Quick, la sua nuova squadra, a gennaio Kittel si aggiudica le prime due tappe del Dubai Tour, sfoggiando una forma fisica invidiabile e mettendo a segno uno dei più inattesi comeback degli ultimi anni. A febbraio, il miracolo si ripete anche in Portogallo, dove taglia per primo il traguardo di due tappe consecutive del Tour dell’Algarve, dimostrando di avere di nuovo il fuoco nella gambe. «Ciò che più mi ha sorpreso, è la rapidità con cui sono entrato in sintonia con i miei nuovi compagni di squadra, un processo che solitamente richiede mesi e mesi, se non anni, di lavoro di lima», racconta. «Il ciclismo non è infatti lo sport solitario che molti immaginano: per tagliare per primi il traguardo, occorre che la squadra lavori in maniera concertata, come un insieme di ingranaggi ben oleati, per portare lo sprinter nella posizione giusta al momento della fuga finale, evitandogli ogni inutile dispendio di energie durante la corsa». La passione di Kittel per il ciclismo risale alla prima adolescenza, quando il padre, appassionato di ciclismo su strada, gli regala una bicicletta da corsa. «Montai subito in sella, e, come posseduto, mi lanciai immediatamente in una folle corsa di ben 30 km. Quando tornai a casa, fui sopraffatto dal senso di spossatezza, ma, con mio stupore, mi scoprii anche  incredibilmente soddisfatto e felice. Era ormai troppo tardi per tornare indietro: il virus del ciclismo mi aveva “infettato”». Oltre che per quel fatidico regalo, Kittel si dichiara grato verso i suoi genitori per avergli insegnato, fin dall’infanzia, ad avere un rapporto sereno ed equilibrato con la “sete di vittoria”. «Non sono nato campione: le mie prime gare, quasi sempre in mountain bike, non mi hanno visto eccellere particolarmente, eppure ricordo che non ero né triste né deluso di me se non riuscivo a salire sul podio. Questo grazie ad un importante insegnamento di mio padre: “quel che conta”, soleva ripetermi quando ero bambino, “non è necessariamente arrivare primi, ma tagliare il traguardo con la sensazione di aver dato il massimo”». «Non saprei dire», prosegue, «se nel frattempo ho imparato davvero a darmi tutto, senza riserve. Di sicuro questo insegnamento, che porto sempre nel cuore, mi aiuta ad accettare con maggiore serenità la superiorità di un rivale. Detto questo, ci sono giornate in cui a parlare, dentro di me, è solo l’ambizione, la voglia di dimostrare al mondo e a me stesso che il migliore sono io. In questo 2016 più che mai, dopo il difficile anno che mi lascio alle spalle».

Pubblicato su L’Uomo Vogue, Marzo 2016

Photo credit: Nacho Alegre

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