“Noi attori, si sa, siamo abituati a cambiar maschera con disinvoltura. Poi arriva il giorno in cui ti imbatti in un personaggio, come Patrick, che ti assomiglia molto, e tutto cambia. Non sai più dove finisce il tuo volto e dove inizia la maschera. Una sensazione ben strana”, racconta Jonathan Groff, protagonista della serie televisiva americana “Looking”. Un’identificazione tra personaggio ed interprete che si è venuta rafforzando, rivela l’attore, nel corso della seconda stagione della serie incentrata sulle vicende di un gruppo di amici gay di San Francisco, i cui nuovi episodi verranno trasmessi a partire da questo mese su HBO. “Il romantico alle prime armi che, un po’ goffamente, esce timidamente dal guscio alla ricerca di una relazione seria, si trasformerà”, anticipa l’attore, “in un personaggio decisamente più strutturato, in grado di allacciare relazioni più profonde e complesse, a tratti ambigue. Col risultato che… prendere le distanze da Patrick mi risulta, oggi, ancora più difficile. Ci sono volte in cui mi capita di leggere il copione e di pensare: “devono aver trovato un mio diario, o messo sotto controllo il mio telefono… queste cose le ho già dette, o pensate io!”. “Accettare questa parte”, ricorda l’attore, “non è stato evidente. “l’omosessualità del mio personaggio”, mi domandavo, “verrà raccontata in maniera credibile o stereotipata?” Ogni remora è venuta meno quando ho scoperto che il regista sarebbe stato Andrew Haigh, l’autore di uno dei miei film a tematica gay preferiti di sempre, “Weekend”. Vi è qualcosa di straordinario nell’autenticità con cui questo regista riesce a restituire i momenti di intimità dei suoi personaggi. Per le scene di sesso, ad esempio, non allontana pudicamente la telecamera, come fanno i più, ma si si abbandona ad interminabili primi piani, ottenendo così di sottolineare l’aspetto emotivo dell’atto, più che quello meccanico”. Con suo stupore, Groff si è scoperto invece immune al dubbio che assale gran parte degli attori gay davanti alla richiesta di interpretare ruoli di omosessuali, e che non di rado è all’origine della decisione di mantenere riserbo sul proprio orientamento sessuale: “È una decisione senza ritorno? Se accetto, rimarrò imprigionato per tutta la mia carriera in ruoli gay?” “Il problema per me non si pone”, racconta sorridendo, “per il semplice fatto che lavorare con registi incapaci di andare al di là del mio orientamento sessuale, non interessati ad esplorare il mio potenziale inespresso di attore, non rientrerebbe comunque tra i miei piani”. “Il rischio di essere imprigionati in un ruolo, del resto”, prosegue, “è connaturato al mestiere d’attore: se hai la fortuna di raggiungere la notorietà con un ruolo, puoi star certo che l’industria cinematografica farà di tutto per murarti vivo lì dentro. Ne so qualcosa: formatomi, da autodidatta, come interprete di musical sui palcoscenici di Broadway, per ottenere ruoli non teatrali ho sempre dovuto sputare sangue”. A giudicare dalle sue collaborazioni d’esordio sul grande e piccolo schermo, nel 2009, entrambe ai più alti livelli, non si direbbe: si aggiudica infatti l’ambito ruolo di “Jesse St. James” nella serie TV cantata “Glee” e quello di protagonista in “Motel Woodstock” di un mostro sacro come Ang Lee. Seguono poi, nel 2011 le partecipazioni in “Twelve thirty” di Jeff Lipsky e “The conspirator” di Robert Redford, e, l’anno successivo, il ruolo protagonista nella serie TV “Boss”. Nel 2013 è di nuovo protagonista in “C.O.G.” di Kyle Patrick Alvarez, il primo film tratto da un racconto di David Sedaris. Questo mese, lo vedremo in “American Sniper”, l’atteso nuovo film di Clint Eastwood. “ll mio ruolo è quello di un soldato ferito”, rivela, “che avrà un forte impatto sul protagonista, interpretato da Bradley Cooper”. I numerosi impegni davanti alla cinepresa non gli fanno dimenticare il teatro: dopo aver interpretato “Claude” nel musical Hair, nel 2009, lo stesso anno si aggiudica un “Obie award” grazie alla sua partecipazione a “Prayer for my enemy”, la controversa pièce di Craig Lucas incentrata sugli effetti devastanti della guerra in Irak su una famiglia americana. L’anno successivo debutta a West End, con il revival di “Deathtrap”, insieme a Simon Russell Beale. Seguono due produzioni californiane: “The submission” (2011) e “Red” (2012), accanto a Alfred Molina. “Trascurare il teatro? Non potrei mai”, confessa l’attore, che a giugno tornerà a calcare le scene newyorchesi con la riadattazione di “A new Brain”, il musical autobiografico di William Finn.
“Interpretare Melchior Gabor nel rock-musical Spring Awakening, dal 2006 al 2008, costituisce, ancora oggi, l’esperienza lavorativa più significativa della mia carriera, perché mi ha insegnato cosa significa lavorare ad un progetto in cui credi al 100%”, racconta l’attore rievocando il suo primo ruolo in teatro, a cui deve la notorietà. “A distanza di più di cento anni da quando fu scritta, questa pièce di Frank Wedekind riesce a raccontarci i primi turbamenti sessuali di un gruppo di adolescenti con un’autenticità tale da scandalizzare, ancora oggi, i benpensanti. Mi sono reso presto conto che il suo messaggio di liberazione, di lotta ad ogni forma di sessuofobia, era anche il mio: nonostante i ritmi di lavoro fossero massacranti, ed io fossi fisicamente allo stremo, ogni sera bastava salire sul palco perché la stanchezza, magicamente, scomparisse di colpo”. “Ma l’impatto più forte che Melchior Gabor ha avuto sulla mia vita è stato, soprattutto, a livello personale”, rivela. “Questo personaggio irriverente, perennemente alla ricerca della propria verità, costi quel che costi, ha avuto il merito di avermi mostrato un mio lato ribelle che non conoscevo. Sono nato in una famiglia metodista, e sono cresciuto convinto di essere un “good boy”, un bravo ragazzo. Poi, per due anni consecutivi, ti ritrovi ad interpretare il ruolo di ragazzo “nato libero”, incurante del giudizio altrui, e, con tua sorpresa, ti accorgi di essere diverso da quello che pensavi di essere”. “Non credo sia un caso che abbia maturato la mia decisione di fare coming out solo un mese dopo aver interrotto le repliche di Spring Awakening”, conclude l’attore. “Ricordo di aver vissuto quella che, solo pochi anni prima, sarebbe stata un’esperienza sofferta e travagliata, con la leggerezza di una passeggiata: scoppiavo dalla voglia di urlare al mondo che, per la prima volta, mi ero innamorato e sapevo che Melchior, al posto mio, non avrebbe aspettato un minuto di più”.
Pubblicato su L’Uomo Vogue, Gennaio 2015
Photo by Alessio Boni