Peak Performance: Interview with architecture studio “Snøhetta”

Quando, nel 1989, si trovarono a dover scegliere un nome per il loro studio, i due architetti norvegesi Craig Dykers e Kjetil Trædal Thorsen decisero di non seguire la consuetudine di battezzarlo con i loro cognomi, optando invece per il nome di una montagna, Snøhetta, il picco più alto della catena norvegese Dovrefjell, dove la mitologia norrena colloca il Valhalla. «Il motivo per cui la scelta è ricaduta su questo nome non ha in realtà niente a che vedere con l’olimpo delle divinità nordiche… lo studio si trovava infatti sopra un bar di nome Dovrefjell, di cui costituiva in un certo senso la “vetta”. Col tempo ci siamo resi conto che questo nome era particolarmente azzeccato per descrivere il nostro approccio all’architettura, rimarcando come la natura per noi venga prima dell’ego dell’architetto», spiega Dykers. «Snøhetta» aggiunge Thorsen, «è inoltre una montagna che impone allo scalatore un percorso sempre diverso, a seconda delle condizioni meteorologiche. Un’ottima metafora del nostro modo di progettare, che prende avvio dalle specificità climatico-ambientali del luogo dove intendiamo costruire, e trova nella molteplicità dei punti di vista il suo punto di forza». Vincitore nel 2004 dell’Aga Khan Award per la nuova Biblioteca di Alessandria d’Egitto, e incaricato dalla città di New York nel 2011 di riprogettare Times Square, lo studio Snøhetta ha al suo attivo innumerevoli progetti in 40 paesi diversi ispirati alla sostenibilità e al dialogo col paesaggio (vedi il “Norwegian Wild Reindeer Pavillion” e il “Dallas Park Pavillion”). Inoltre, porta avanti da sempre una pratica progettuale “trans-disciplinare” che vede un nutrito gruppo di architetti,  paesaggisti, grafici, arredatori e brand designers (135 in tutto) lavorare gomito a gomito con paesaggisti, storici, filosofi, biologi, annullando programmaticamente le barriere tra le varie aree del sapere. «Siamo convinti che le idee più originali nascano dall’interfaccia tra discipline diverse», spiega Dykers. «Per questo nel nostro studio progettare significa innanzitutto organizzare tavole rotonde a cui prendono parte professionisti, ma anche comuni cittadini dai background molto diversi». Un esempio è il Teatro dell’Opera di Oslo, un suggestivo “iceberg” di vetro e pietra bianca che emerge dalle acque del fiordo della capitale e che Dykers, Thorsen e soci progettano sulla scorta di innumerevoli conversazioni con compositori, scenografi, musicisti e persino amici melomani. «Ci siamo così resi conto che all’Opera molte persone non si recano solo per ascoltare i melodrammi, ma anche per “vedere e farsi vedere”. Per potenziare questa valenza sociale abbiamo concepito un edificio che presenta diversi spazi di aggregazione, prima fra tutti una terrazza sul tetto con vista sulla città». «Solo con un approccio collaborativo» osserva Thorsen, «si può sperare di affrontare le grandi sfide della modernità, in primis quella della sostenibilità: un concetto, ahimè, quasi sempre svilito e ipersemplificato, soprattutto in architettura». Troppo spesso, lamentano i fondatori di Snøhetta, chiamiamo “sostenibili” edifici che non sono affatto CO2-neutrali, perché ci si dimentica a bella posta di includere nel computo delle emissioni l’energia consumata per produrre i materiali di costruzione, la cosiddetta “embodied energy”: per risolvere questa contraddizione, e aprire la strada a una nuova generazione di edifici davvero a impatto zero, Snøhetta sta lavorando a un progetto sull’isola di Brattørkaia, a Trondheim, in Norvegia, che prevede la costruzione di edifici sostenibili “di nuova generazione” a sezione triangolare – un’estetica insolita, determinata da considerazioni bioclimatiche – in grado non solo di produrre più energia di quanta ne consumino, ma anche di risultare CO2-neutrali dopo sessant’anni dalla loro costruzione. Sarebbe sbagliato però, come sottolinea Thorsen, restringere la “sostenibilità “ alla sola sfera ecologica. «Esiste anche una sostenibilità di natura sociale, psicologica. Troppo spesso gli architetti dimenticano che i loro edifici avranno un forte impatto sulla salute mentale e fisica di chi li abiterà, e che questo a sua volta si ripercuoterà sulla percezione che la società ha del proprio ambiente. Con inevitabili ricadute sulla causa ecologica». Condizione necessaria perché l’architettura aiuti per davvero gli individui a ristabilire l’equilibrio perduto con se stessi e con la natura è che essa abbandoni l’approccio cattedratico e “top-down” caro a molte archi-star, che prevede nella norma fruitori passivi. «Per noi è fondamentale che chi entra in un nostro edificio sia messo nella condizione di effettuare delle “scoperte” sullo spazio che sta visitando in maniera autonoma» spiega Dykers. «Per la nuova ala del San Francisco Museum of Modern Art, la cui costruzione verrà ultimata nel 2016, abbiamo predisposto ad esempio una serie di squarci di visuale sulla città con prospettive insolite, che inducono il visitatore a maturare un nuovo rapporto con un paesaggio urbano che magari dava per scontato. Una scala monumentale oscurerà inoltre gli ascensori, così da invitare i visitatori del museo a fare del moto e ribadire il nesso tra equilibrio psichico e fisico. L’architettura può contribuire al raggiungimento di entrambi». «Analogamente, nella Biblioteca di Alessandria», conclude Thorsen «opportune aperture sull’esterno fanno sì che la vista del mare non abbandoni mai chi risale i piani dell’edificio. I meno distratti vengono così messi nella condizione di fare, da soli, una constatazione tutt’altro che banale, e se vogliamo poetica: che la linea dell’orizzonte segue il nostro movimento, ponendosi immancabilmente all’altezza dei nostri occhi».

Pubblicato su L’Uomo Vogue, Aprile 2014

Photo credit: Philippe Vogelenzang

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