Cresce l’inquinamento sonoro degli oceani e mette a rischio la sopravvivenza dei grandi cetacei. Studi e nuove tecnologie cercano di correre ai ripari.
Col il loro “canto”, che il biologo marino Philip Clapham descrive come “probabilmente il più complesso nel regno animale”, le balene sono in grado di sfruttare al meglio la trasmissione delle basse frequenze nell’acqua, riuscendo a comunicare l’una con l’altra (non di rado di questioni di cuore) fino a 3000 chilometri di distanza. «Non è stato l’Uomo ad inventare le telecomunicazioni», spiega Sarah Lazarus, autrice del libro “Troubled Waters: The Changing Fortunes of Whales and Dolphins”, ricordando come, secondo alcuni scienziati, un tempo non molto lontano le balene riuscivano a parlarsi addirittura da una sponda all’altra dell’oceano. «Da tempo questo miracolo della natura ha cessato di ripetersi», lamenta Lazarus. «Con l’intensificarsi del traffico navale e delle attività di trivellazione dei fondali alla ricerca del petrolio gli oceani sono diventati un habitat cento volte più rumoroso rispetto a soli 60 anni fa, con conseguenze gravissime per la sopravvivenza dei cetacei». «È in corso un “olocausto acustico”, accusa Stacy DeRuiter, una delle autrici di un importante studio anglo-americano, pubblicato in primavera, che punta invece l’indice contro i “low frequency active sonar”, le apparecchiature militari anti-sottomarino. «Rumori troppo forti possono causare forte stress ai giganti del mare, ed indurli a modificare il loro comportamento, mettendo a repentaglio la loro stessa vita», Considerati a buon diritto, con onde sonore d’intensità superiore ai 240 decibel, la prima sorgente di rumore negli oceani, per il team di DeReuter tali apparecchiature potrebbero addirittura essere all’origine dei cosiddetti “spiaggiamenti anomali”, quei drammatici episodi di suicidio collettivo di cetacei e delfini considerati “innaturali” dagli etologi perché coinvolgono più specie simultaneamente. «Anche a decine di chilometri di distanza dalla sorgente, i sonar militari inducono una vera e propria reazione di “panico” e confusione nei cetacei, che reagiscono scompostamente, o immergendosi in profondità, o emergendo troppo velocemente, andando incontro non di rado a morte per emorragia cerebrale dovuta ad embolia, come avviene ai sommozzatori». Nell’attesa di accordi internazionali che arginino l’ecatombe, lascia ben sperare la tecnologia del “thermal imaging”, attualmente in fase di sperimentazione all’Alfred Wegener Institut, in Germania, che, se adottata dalle marine militari, consentirebbe di identificare i corpi caldi delle balene anche a grandi distanze e sospendere per tempo la produzione di suoni molesti. Buone notizie arrivano anche da Bruxelles, dove lo scorso ottobre il Parlamento Europeo ha licenziato una normativa che inserisce le rumorose trivellazioni oceaniche tra le attività che richiedono una valutazione di impatto ambientale, incluso quello di tipo sonoro sui cetacei, dimostrando per una volta autonomia dai diktat della lobby del petrolio. Molto può essere fatto anche per ridurre l’inquinamento acustico causato dal traffico navale internazionale, oggi più intenso che mai: secondo il biologo Peter Tyack. un design intelligente delle eliche e degli scafi delle navi basterebbe ad abbatterlo di oltre il 90%. Desta qualche preoccupazione invece il progetto dell’università di Buffalo di creare l’ “internet degli abissi” attraverso un sistema di wifi subacqueo che, imitando delfini e balene, sfrutterà le onde sonore al posto delle onde radio. Oltre a prevenire tsunami e monitorare più agevolmente le attività off-shore, aprirà – promettono gli scienziati in una recente pubblicazione – nuove strade per lo studio del comportamento dei mammiferi marini, così da facilitarne la protezione. Peccato che, se il progetto dovesse decollare, renderebbe di fatto il loro habitat ancora più inquinato acusticamente di quanto già non sia. L’ennesimo esempio di cura peggiore della malattia?
Pubblicato su Vogue Italia, Marzo 2014