Dalle ONG alle “OQG”: Organizzazioni quasi governative

 

Nel corso degli ultimi cinquant’anni, un numero crescente di cittadini nell’Occidente industrializzato si è allontanato dalla politica di massa tradizionale, rinunciando a militare tra le fila di un partito o di un sindacato, e addirittura ad andare alle urne elettorali. Al contempo, un numero crescente di organizzazioni non governative, come Greenpeace, Shelter e Oxfam, sono riuscite ad imporsi come uno strumento alternativo alla politica tradizionale per perseguire precisi obiettivi politici. Il quadro che emerge dalla fine analisi degli autori di “The Politics of Expertise”, una recente pubblicazione dell’Università di Birmingham, è quello di una governance  internazionale in profondo subbuglio: “possiamo dire che, grazie alle ONG, in questi anni la politica stia attraversando una fase di privatizzazione”. La crescita del settore no-profit, negli ultimi venticinque anni, è avvenuta a ritmi a dir poco vertiginosi: secondo l’ “Union of International Associations”, il numero di ONG attive a livello internazionale nel 2012 era 38 000, ovvero più del doppio di quelle recensite nell’annuario del 1998. Il numero di ONG attive invece a livello nazionale si aggira ormai sull’ordine dei milioni, di cui 1,5 milioni negli Stati Uniti e 3,3 nella sola India. Grazie ad innumerevoli azioni mirate e puntuali, spesso spettacolari, la loro credibilità è cresciuta enormemente: molte di queste organizzazioni siedono ormai ai tavoli dei più importanti summit internazionali e riscuotono maggiore fiducia e rispetto presso il grande pubblico di colossi privati internazionali come Microsoft o Ford, che per la buona reputazione del proprio brand investono annualmente milioni di dollari. “Quella a cui stiamo assistendo, è una vera e propria “Rivoluzione associativa globale””, spiega Lester M. Salomon, direttore del “Center for Civil Society Studies” alla Johns Hopkins University – un centro di ricerca dedicato allo studio del settore no-profit nel mondo –  da ascrivere alla “crisi dello Stato” tradizionalmente inteso: “Nel corso degli ultimi venticinque anni si è incrinata, un po’ ovunque, la fiducia nella capacità d’azione dello Stato. Ad essa hanno contribuito il fallimento delle politiche sociali dei governi occidentali e delle politiche di sviluppo promosse dai governi del Sud del mondo, il collasso dell’esperimento del socialismo nell’Europa Centrale e Orientale e, certamente, l’incapacità manifesta degli Stati di raccogliere il guanto della sfida dell’attuale impasse climatica”. Secondo Fariborz Ghadar, Senior Advisor e Founding Director presso lo “Smeal Center for Global Business Studies” della Penn State University, nel corso degli ultimi decenni stiamo assistendo ad una graduale ridistribuzione della Governance mondiale, un tempo appannaggio dei soli governi, a vantaggio di altri soggetti: da un lato le grandi aziende multinazionali, organizzate com’è noto in potentissime lobby capaci non di rado di tenere in scacco interi parlamenti, dall’altro le organizzazioni non governative, che si sono ritagliate il ruolo di “coscienza del mondo”, e di contrappeso al potere dei governi e all’avidità del libero mercato” “A dispetto del nome, anch’esse prendono di fatto sempre più attivamente parte al processo di governance”, spiega l’accademico. “È arrivato il tempo di trovare una nuova definizione per questa parola, che in molti testi viene ancora definita come “l’arte di guidare società e organizzazioni”. Una definizione ornai desueta, che lascia intendere un processo immediato e lineare, come l’atto di sterzare il timone di una nave, e che non rende giustizia alla sua odierna complessità. Esso coinvolge ormai una pluralità di soggetti, ed il suo esercizio procede per tentativi, in maniera imprevedibile e spesso caotica, com’è normale che sia in una logica di dialettica tra più poteri”. “E, si badi bene, il ruolo delle ONG non si limita a quello di “cane da guardia”, e cioè di spettatore passivo che si limita a denunciare ingiustizie ed abusi da parte di governi ed aziende”, prosegue Ghadar. “Esse hanno dimostrato di essere un soggetto decisamente attivo e propositivo, capace di proporre soluzioni originali ai problemi e di plasmare in maniera profonda la società in cui viviamo. Nel settore degli aiuti umanitari, ad esempio, molti dei protocolli d’aiuto seguiti dagli Stati, e considerati oggi “best practice”, sono stati precedentemente messi a punto e testati nel corso di decenni dalle ONG attive sul campo”. Anche le collaborazioni tra ONG e grandi aziende si fanno via via più strette: “Grazie all’azione delle ONG, assistiamo in questi anni ad una ridefinizione del significato di “corporate social responsibility (CSR)”: tale espressione non significa più fare qualcosa di buono con i profitti dell’azienda, ma piuttosto ripensare in primo luogo le pratiche con cui quei profitti vengono realizzati”, spiega Jem Bendell, direttore dell’ “Institute for Leadership and Sustainability” alla University of Cumbria “La natura di questa collaborazione sta cambiando radicalmente”,“e va ben oltre la “corporate philantropy” a cui ci ha abituato il passato. Oggi assistiamo alla nascita di partnerschip strategiche che finiscono con l’influenzare profondamente le pratiche aziendali, portando a ristrutturazioni sostanziali del business model e ad efficaci riduzioni dell’impatto esterno, sia sociale che ambientale, dell’azienda”. Anche sul fronte dell’ambiente, le ONG si sono rivelate una forza dinamica in grado di proporre efficaci soluzioni ai problemi in maniera autonoma, senza attendere i tempi pachidermici necessari ai governi per legiferare o siglare accordi internazionali: promuovendo l’introduzione del marchio di certificazione FSC, ad esempio, con cui si attesta che un prodotto in legno non ha contribuito alla deforestazione, l’ONG ambientalista WWF è riuscita in un tempo relativamente breve ad esercitare una forte pressione sull’industria e ad orientarne positivamente le pratiche nella direzione di una maggiore sostenibilità. “In un mondo sempre più complesso da governare, il ruolo delle ONG è sempre più importante ed indispensabile”, rimarca Mons. Paglia, consigliere spirituale della Comunità di Sant’Egidio oltreché presidente della Federazione Biblica cattolica internazionale e del Pontificio Consiglio per la Famiglia. “Penso ad esempio al progetto DREAM per la lotta all’AIDS, un esempio di collaborazione internazionale tra più governi ed istituzioni dove la presenza della nostra ONG si è rivelata cruciale per superare ogni interesse di parte, e scongiurare il rischio, tutt’altro che remoto in Africa, che governi corrotti sviassero i fondi umanitari verso scopi meno nobili. Oppure penso ai processi di pacificazione in Mozambico, nei Balcani, e più di recente, in Darfur, che, analogamente, non avrebbero potuto concludersi con successo senza la mediazione attiva della Comunità di Sant’Egidio”. Quello delle ONG, ricorda Paglia, è stato più volte definito a buon diritto un “soft power”: una forza estremamente più agile delle grandi istituzioni, capace di muoversi sul campo con maggiore disinvoltura, e di raggiungere obiettivi per esse impensabili. “Come potrebbe un governo entrare in contatto con forze, diciamo, “fuori ordine”, come milizie di ribelli, frange di resistenza, senza compromettersi?” Come ha sottolineato Papa Benedetto XVI in una recente enciclica, occorre concepire una “società poliarchica”, dove il potere è opportunamente suddiviso tra più soggetti. Una “governance della globalizzazione” a più voci che scongiuri il rischio di “un pericoloso potere universale di tipo monocratico” Una società dove il principio di sussidiarietà – e cioè quel principio regolatore per cui se un ente che sta “più in basso” è capace di fare qualcosa, l’ente che sta “più in alto” deve lasciargli questo compito, eventualmente sostenendone anche l’azione – deve diventare la norma e non l’eccezione”. L’epoca della globalizzazione si annuncia dunque carica di straordinarie opportunità per le ONG, ma “attenzione”, ammonisce Paglia: “esse non devono “montarsi la testa”, ma tenere ben a mente che solo all’interno di un triangolo d’azione con governi ed altre grandi istituzioni internazionali possono sperare di centrare gli obiettivi umanitari, ambientali e diplomatici più ambiziosi, e dagli effetti più duraturi.” A detta di Werner Külling, storico fondatore di Helvetas, una delle più importanti ONG svizzere attive nel settore umanitario,“Col crescere del potere e della capacità d’influenza delle ONG, negli anni a venire sarà sempre più importante creare per esse dei sistemi di certificazione da parte di organismi terzi”. Ma è dai social networks che Külling prevede verranno le maggiori novità per il settore. “In seguito alla Primavera Araba, è cresciuto l’interesse verso i social networks per generare fondi e supporto dal basso per le ONG attraverso strumenti di “crowd-funding”. Vi è però chi teme che i social network, a conti fatti, finiranno con l’eroderne il potere, favorendo l’aggregazione di gruppi sparsi e non strutturati di cittadini accomunati da una causa, che non sentiranno l’esigenza di appoggiarsi ad una ONG per raggiungere un obiettivo. Quale sarà il loro effetto preponderante, sarà il tempo a dircelo”.

1 Acronimo per Drug Resource Enhancement against AIDS and Malnutrition, è un programma lanciato nel Febbraio del 2002 dalla Comunità di Sant’Egidio, volto a trattare l’AIDS in Africa con un approccio olistico.

 

Michele Fossi

Pubblicato su Oxygen 21, Ottobre 2013

 

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