Prima una pennellata, poi un’altra, e poi un’altra ancora, ed ecco che l’opera, come per magia, prende rapidamente forma sotto i nostri occhi. Il tratto, che non sembra conoscere esitazioni ed incertezze, è quello inconfondibile di Pablo Picasso immortalato dalla cinepresa del regista Henri-Georges Clouzot nell’atto di dipingere su vari supporti vitrei trasparenti: l’atto creativo del grande genio viene così per la prima volta rivelata al mondo. Basta riprendere in mano questo capolavoro del genere documentario, “Le mystère Picasso“, realizzato nel 1956 e vincitore, quello stesso anno, del Premio Speciale della Giuria al 9° festival di Cannes, per cogliere il grande potenziale del “documentario sugli artisti contemporanei”: ricordarci che l’arte è, innanzitutto, una storia avvincente, e che il cinema è in grado, come nessun altro mezzo, di narrarla in chiave intima e privata. “Attraverso l’intervista o la ripresa del lavoro nello studio dell’artista, la cinepresa svela, talvolta anche impudicamente, sfumature, originalità, modi inaspettati e privati della personalità dell’artista, spesso indispensabili per capirne la démarche artistica”, spiega Silvia Lucchesi, fondatrice nel 2008 e direttore de “Lo Schermo dell’Arte Film Festival” e, nel ’96 /’97, curatrice con Laura Trisorio di “Artecinema” a Napoli, le prime, e tutt’oggi le uniche, manifestazioni cinematografiche al mondo interamente consacrate al documentario sull’arte contemporanea. “Più di libro, più di una mostra, il cinema può introdurci al lavoro di un artista. Grazie al rapporto di confidenza e fiducia instaurato con i registi, gli artisti offrono generosamente i loro pensieri, e si raccontano svelando allo spettatore che vizi e intemperanze convivono, in loro, con sogni e delusioni, così come è nella vita di ciascuno di noi”. Un genere cinematografico interessato all’Uomo che si nasconde dietro ad ogni artista, la cui stella ha preso recentemente a brillare come mai in passato: nel 2011 “Waste land” (2010), sul lavoro dell’artista brasiliano Vik Muniz tra le discariche del suo paese, è il primo docufilm su un artista contemporaneo ad entrare nella cinquina degli oscar; due anni dopo “Marina Abramovic. The Artist is Present” e “Ai Weiwei Never Sorry”, dedicati rispettivamente a due figure iconiche dell’arte di oggi, si impongono a sorpresa come due tra i film più importanti della stagione e, grazie alla successiva diffusione in DVD, riescono addirittura a diventare un cult presso il grande pubblico. “Il cinema ha mostrato da sempre un forte interesse per le vite dei grandi protagonisti dell’arte”, puntualizza Lucchesi. “Basti pensare a quel genere biografico, oggi chiamato “biopic”, che ha visto la produzione di celebri film a partire da “Rembrandt” di Korda, “Brama di vivere” di Minnelli, “Moulin-Rouge” di Huston o “Andrei Roublev” di Tarkovski, fino ad arrivare ai più recenti “Caravaggio” di Jarman, i due “Van Gogh” di Pialat e Altman o “Basquiat” di Julian Schnabel. Ma è solo nel corso degli ultimi anni che il cinema, seguendo l’esempio di Clouzot e di Hans Namuth e Paul Falkenberg, che nel 1951 in “Pollock” ripresero i celebri dripping del pittore americano, avverte l’urgenza di indagare il lavoro di artisti contemporanei. E che il pubblico dimostra un grande interesse per il genere”. A cosa ascrivere dunque questo improvvisa attenzione, sia da parte dei registi che del pubblico, per dei film a lungo considerati buoni solo per le sale semideserte dei cinema d’essai, e che oggi troviamo sempre più spesso nei programmi dei festival di cinema più importanti del mondo? “Sia il genere del documentario che l’arte contemporanea sono diventati indubbiamente più “pop” nel corso dell’ultimo decennio”, continua Lucchesi. “Da un lato dobbiamo ricordare alcuni film-denuncia come quelli di Michael Moore, che nei primi anni duemila, sbancando ai botteghini, hanno contribuito sensibilmente a spazzare via quel pregiudizio inveterato che da sempre relegava il documentario a genere elitario, televisivo e, tutto sommato, un po’ barboso. Dall’altro, negli stessi anni, la bolla speculativa nell’arte contemporanea ha aumentato l’attenzione dei media e reso alcuni artisti dei fenomeni di costume, allargando enormemente il numero di fruitori e appassionati e creando di fatto un mercato cinematografico per i film sull’arte impensabile solo fino a 10 anni fa”. “A fungere anche da catalizzatori, osserva Leonardo Bigazzi Festival Producer de “Lo schermo dell’arte”, sono più di recente la possibilità di acquistare film “on demand” e l’avvento dei canali digitali che sono alla ricerca continua di materiali e nuove storie da raccontare. Essi dischiudono nuovi, promettenti possibilità di diffusione per questi prodotti cinematografici, fungendo da stimolo per la produzione di nuovi lavori”. Tra i film più attesi alla prossima edizione de “Lo schermo dell’arte”, che si svolgerà a Firenze dal 13 al 17 Novembre, i tre documentari in prima Italiana dedicati ad altrettanti mostri sacri dell’arte contemporanea: “Open Field. Gabriel Orozco” di Juan Carlos Martìn, “Sophie Calle Sin Tìtulo” di Victoria Clay Mendosa e “The Man Who Invented Himself: Duane Michals” di Camille Guichard. Grande attesa anche per due documentari che usciranno nelle sale solo nel 2014, attualmente in fase di produzione, che ci dischiuderanno gli atelier di due grandes dames dell’arte contemporanea: l’artista giapponese Yayoi Kusama e l’iraniana Shirin Neshat.
Pubblicato su L’Uomo Vogue, Settembre 2013
Photo credit:
Ai Weiwei Never Sorry di Alison Klayman, USA, 2012, distribuito da PFA Films, Feltrinelli Real Cinema e Unipol – Biografilm Collection.
Marina Abramović – The Artist is Present di Matthew Akers, USA, 2012, coprodotto e distribuito in Italia da GA&A e Feltrinelli Real Cinema.