Se l’entertainment incontra il CELEBRITY ENDORSEMENT

Celebrity Endorsement: Fenomeno dalla fortuna altalenante, “rilanciato” dal web. 

La tendenza a preferire divi del cinema o della musica ha radici geografiche. E nel “social media ad” sono soprattutto rock e popstars a dominare

La “benedizione” di un personaggio famoso, si sa, può fare la fortuna di un brand. Charles Worth, “padre” della haute couture, lo aveva già capito nell’800: gli fu sufficiente regalare alcune sue creazioni alla principessa Pauline Von Metternich, personaggio molto in vista alla corte dell’imperatore Napoleone III, per garantire alla sua Maison una visibilità senza precedenti. Anche il “celebrity endorsement”, l’uso di star come testimonial di campagne pubblicitarie, è tutto fuorché un fenomeno recente: basti pensare ai poster pubblicitari che, già nel 1890, ritraggono l’attrice Sarah Bernhardt come volto de “La Diaphane”, una nota marca di cosmetici. Ma è solo a partire dagli anni 80 che il fenomeno ha assunto le proporzioni che ben conosciamo. Nei paesi asiatici si può parlare di una vera e propria ossessione: il celebrity endorsement, secondo il colosso di market research Millward Brown, interessa il 18% delle campagne in India, il 30% in Giappone e addirittura il 35% in Cina, dove può capitare di vedere la stessa star in 15 campagne diverse nello stesso momento. Fino all’anno scorso la cantante e attrice Jolin Tsai, la Jennifer Lopez cinese, figurava ad esempio in ben 14 spot diversi, da Levi’s a MacDonald’s, “anche se la sua capacità di essere credibile per il primo brand” – ebbe a notare a tal riguardo il Financial Times – “è inevitabilmente messa a dura prova da troppo consumo del secondo”. A livello globale, Millward Brown stima che la categoria di celebrities più richiesta dalle agenzie pubblicitarie siano di gran lunga le star del cinema (39%), seguite da quelle televisive (18%), sportive (16%) e musicali (12%). Ma che cosa detta l’orientamento verso, per esempio, un volto noto del grande schermo, o una pop star? La diversa fortuna di queste categorie ha radici geografiche e ricalca fedelmente le dinamiche socio-culturali di un luogo. Se in Africa e Medio Oriente le stelle del cinema figurano nel 60% delle campagne con celebrities e in Asia nel 36%, in Sud America la percentuale scende al 4%, e a far la parte da leone sono soprattutto gli sportivi (34%) e i cantanti (10%). Anche in Europa e negli Usa la palma va agli sportivi (27%-29%), seguiti, a pari merito, da attori (17-19%) e star della musica (9-10%). Spiega Agostino Toscana, creativo pubblicitario di Saatchi & Saatchi, colosso dell’advertisement presente in 84 paesi: «Se è vero che in Asia, ad esempio, prevale nettamente l’aspetto del carisma “seduttivo”», perfettamente incarnato dai divi del cinema di casa, «negli Stati Uniti invece prevale l’aspetto “competitivo”, la figura del vincente, dell’uomo che è stato artefice del suo successo attraverso il lavoro e la perseveranza», una prerogativa dei “supermen” di Nba, Nfl etc. Concentrandoci solo sullo spettacolo “at large” (dunque cinema, Tv e musica), non pare esistere più una mappatura che a una specifica dote del testimonial (attoriale, musicale) colleghi una categoria merceologica piuttosto che un’altra. «Direi che oggi i testimonials vengono scelti per i valori che si portano dietro come persone. Non si tratta di scegliere un attore in quanto attore o in quanto genericamente famoso ma in quanto simbolo di “bellezza” (Brad Pitt), di “morbida seduzione” (George Clooney), di “maschia esperienza” (Clint Eastwood), di “raffinata eleganza” (Adrian Brody o John Malkovich), di “virile eleganza” (Daniel Craig) di “sensibilità” (Richard Gere), di ” trasgressione cool” (Kate Moss, Madonna), di “golosità del vivere e inclinazione ai piaceri della tavola” (Depardieu, Abatantuono) e via così. L’immagine pubblica di ogni “personaggio famoso” si può incasellare in un paio di aggettivi. Se quegli aggettivi si sposano bene col brand la scelta è fatta». «Anche se decisamente in calo un po’ ovunque in Occidente, vuoi per il ridimensionamento dei budget delle aziende e per le tante campagne-flop degli ultimi anni, il celebrity endorsement funziona ancora molto bene quando il talento della star è usato in maniera creativa», spiega Bruno Bertelli, direttore creativo esecutivo di Publicis Italia, divisione italiana del gruppo di comunicazione fondato a Parigi nel 1929, terzo al mondo per giro d’affari. «Un buon esempio è lo spot per la marca di cioccolato Snickers con Joe Pesci, nel quale l’attore è impiegato come tale, e non nella veste di celebrity, per recitare una scena ispirata al suo celebre film “Quei bravi ragazzi”». Incalza Dominique Twose di Millward Brown: «In parte dipende dal messaggio: se quello che si vuole trasmettere è che con il profumo X ci si sentirà bellissime, allora probabilmente si scritturerà una supermodel o un’attrice di raro fascino. Può dipendere anche da certe consuetudini pubblicitarie di carattere regionale/normative regionali di categoria: in alcune aree la regola è di pubblicizzare il makeup usando modelle, in altre si preferiscono le attrici. E, che ci si creda o no, può dipendere anche dal capriccio del team di “admen”: so di casi in cui una certa attrice è stata impiegata solo perché il direttore creativo la voleva conoscere!». Esiste un ambito in cui le star della musica sembrano avere un concreto vantaggio su quelle dello schermo: i social media, dove in quanto a numero di like e followers,” inceneriscono” letteralmente tutte le altre categorie (Un attore à la page come Robert Pattinson non raggiunge i due milioni di like, a fronte dei 65 di Rihanna). Se l’iconica campagna di Mark Wahlberg alias “Marky Mark” per l’underwear di Calvin Klein nel 1992 lanciò l’allora rapper su una traiettoria che ha presto intersecato il big screen, oggi alla voce “music testimonial” furoreggia Kate Perry, protagonista da alcuni mesi di una scanzonata campagna per il brand di patatine Popchips (in cui si dice abbia investito in prima persona), un abbinamento perfetto tra celebrità e prodotto, quasi da manuale. La Perry può vantare ben 45,7 milioni di like su Facebook, e 24,5 milioni di follower su Twitter. Secondo il sito di informazioni economiche Bloomberg, il cosiddetto “social-media ad spending” passerà da quasi 5 miliardi di dollari alla fine del 2012 a 9,8 nel 2016. «I social media stanno regalando a questa tecnica pubblicitaria una nuova giovinezza», spiega Toscana. «Se i new media hanno spianato nuove vie per promuovere un prodotto, un immaginario tweet in cui George Clooney ci dicesse: “Mi sto sorseggiando un buon caffè”, ci convincerebbe probabilmente della qualità del noto brand da lui sponsorizzato più di ogni spot televisivo». Che il settore stia vivendo un momento di grande effervescenza lo dimostra del resto anche la velocità con cui sono spuntate sul mercato nuove realtà come Izea, Ad.ly, dot.talent e twtMob, vere e proprie agenzie di rating specializzate nel celebrity endorsement che, con appositi algoritmi, setacciano il web e promettono di suggerire, per ogni brand, la lista di star più adatte. «I new media forniscono a noi pubblicitari gli strumenti analitici per realizzare campagne con celebrities infinitamente più mirate ed efficaci che in passato. La composizione per età, sesso, gusti e abitudini della“fan-base” di una star, ad esempio, ci dà preziosissime indicazioni sul target demografico che intendiamo colpire», prosegue Toscana. «Ma ancora più importante oggi è la capacità di una star di generare “buzz”, di innescare cioè un’esplosione di “share” tra gli utenti». Tutti parametri oggi misurabili che, confermano anche dalla 23Red, agenzia londinese di comunicazione creativa integrata, compaiono sempre più esplicitamente nei contratti che siglano gli accordi tra brand e star. «Col moltiplicarsi dei canali pubblicitari offerti dai social media, i contratti sono sempre più suddivisi in microclausole», racconta Hamish Pringle, consulente strategico di 23red e autore del libro “Celebrity sells”. «Se il brand organizza un evento dove la celebrity è l’ospite d’onore, la possibilità o meno di postare foto della star sulla pagina Facebook dell’azienda (nella speranza di innescare un effetto “travaso” dal bacino di fan della star a quello del brand) è oggi solitamente regolata dal contratto. E ha un suo costo aggiuntivo». Alla luce di queste ultime, rapide evoluzioni del celebrity endorsement all’epoca del web 2.0 viene quasi da sorridere al ricordo delle campagne pubblicitarie che le star americane andavano segretamente a girare in Giappone, giacché prestare il proprio volto a un brand era ancora considerato “disdicevole”. Il sito Japander.com prende in rassegna un centinaio circa di queste “marachelle”. Da Quentin Tarantino impegnato in una lotta all’ultimo sangue per impossessarsi di un telecomando a un improbabile Andy Warhol che parla in Giapponese, il divertimento è assicurato. 

 

Flops

 

Una delle cause più comuni del fallimento di una campagna pubblicitaria che affida ad una celebrity il ruolo di testimonial è il cosiddetto fenomeno di “cannibalizzazione del prodotto”: questo avviene quando, in assenza di un messaggio pubblicitario chiaro e forte, la notorietà del testimonial finisce con l’offuscare nella memoria del consumatore le caratteristiche, e persino il nome, del prodotto che si vuole pubblicizzare. «Altre volte», spiega Hamish Pringle, consulente strategico di 23red, «il fallimento della campagna è dovuto a una scelta del testimonial giudicata poco credibile, se non addirittura “grottesca”: gli inglesi ebbero a ridire quando il nome di Diana comparve sulle scatole della margarina Flora». I veri dolori per il brand arrivano però quando la star è travolta da uno scandalo. Tra le aziende più sfortunate a tal riguardo figura Pepsi. Nel 1989 il colosso dei soft-drink firma un contratto da 5 milioni di dollari con Madonna; peccato che, pochi giorni dopo, la messa in onda di un videoclip dove la star bacia un santo e riceve le stigmate susciti le ire del cardinale del Texas, che invoca il boicottaggio di tutti i marchi del gruppo. Michael Jackson era testimonial Pepsi quando fu raggiunto dallo scandalo pedofilia. Britney Spears, invece, fu beccata… a bersi una Coca-Cola. Partita col piede sbagliato anche la collaborazione con Beyoncé salutata fin dal primo giorno del suo lancio, lo scorso Dicembre, con un coro di critiche: la cantante (che per l’endorsement ha incassato un cachet record di 50 milioni di dollari), è infatti reduce dall’impegno contro l’obesità giovanile per la campagna Let’s Move di Michelle Obama. Le scappatelle possono risultare costose: ne sa qualcosa il campione di golf Tiger Woods, che per le sue infedeltà ha visto sfumare 22 milioni di dollari in contratti pubblicitari con Nike, Gatorade, AT&T, Accenture e Gillette. L’immagine di un brand può essere lesa in maniera particolarmente grave, ovviamente, quando la star è coinvolta in crimini violenti o scandali di droga. Nel 2004 Nutella e McDonald’s lasciano a terra Kobe Bryant, la star dei Lakers, perché accusato di stupro. Nel 2005 Burberry, Chanel, e H&M rescindono i loro contratti con Kate Moss dopo che il Daily Mirror pubblica le famose foto della modella nell’atto di sniffare cocaina. A mandare all’aria una campagna con uno sportivo ci pensa solitamente il doping. A volte, a complicare le cose, ci si mettono acciacchi e problemi di salute. La tennista Martina Hingis, costretta ad abbandonare una promettente carriera per colpa di ripetuti problemi al piede, nel 2001 pensa bene di citare in giudizio il brand per cui era stata testimonial dal 1996, Sergio Tacchini, con l’accusa di averle fatto indossare sneakers non adatte a un impiego agonistico. Come ogni matrimonio che si rispetti, anche quello tra una star e un brand può finire in tribunale. A volte, infine, può essere un “eccesso di franchezza” a far naufragare il sodalizio pubblicitario tra un brand e una star. Nel 1997 la storica marca di cosmetici Yardley rescinde il contratto con l’attrice Helena Bonham Carter. Il motivo? L’attrice aveva dichiara di non fare mai uso di trucco e di non capire bene perché Yardley l’avesse scelta. M.F.

 

Pubblicato su L’Uomo Vogue, Febbraio 2013

 

 

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