Non tutti sanno che le telecamere utilizzate per Google Street View, e persino nei veicoli senza pilota della NASA, sono “open source”: si chiamano Elphel, ed il loro hardware è liberamente accessibile e modificabile da chiunque sappia metterci le mani. A detta di Joseph Grima, direttore di DOMUS, curatore della prima Istanbul Design Biennale ed autore del saggio “Architettura open source, verso una progettazione aperta”, in uscita per Einaudi, non si tratta di un caso isolato, ma di uno dei tanti esempi di un cambiamento di paradigma produttivo che, già da alcuni anni, starebbe rivoluzionando il mondo del design e dell’architettura, e che The Economist, in un suo editoriale dello scorso Aprile, non ha esitato a definire “La terza rivoluzione industriale”. «Tra gli effetti del web 2.0, vi è quello di aver innescato un processo di democratizzazione del processo di creazione degli oggetti», spiega Grima. «La filosofia “open source”, che ben conosciamo dal mondo immateriale dell’informatica grazie a Wikipedia, al browser Firefox ed al sistema operativo Linux, sta “uscendo dallo schermo” e contagiando rapidamente anche l’universo dei manufatti tridimensionali.» Dall’ “open source software” all’ “open source hardware, insomma. Il gruppo olandese “Droog”, ad esempio, noto soprattutto per aver presentato il progetto “Design for download” al salone del Mobile 2011, lo scorso Novembre ha inaugurato una piattaforma online che raccoglie progetti di design liberi da copyright, pensati per il faidate o per essere realizzati da un’azienda di fiducia vicino a casa. “Open architecture Network”, progetto lanciato nel 2011 da “Architecture for humanity”, consente il libero accesso alle blueprints, i disegni tecnici ad alta risoluzione dei più disparati progetti di architettura e design, con lo scopo di favorire la progettazione a più mani. In un sistema simile al gioco “Meccano”, l’iniziativa “OpenStructures” mira invece a creare un “esperanto del design”, grazie ad un database di componenti costruttivi elementari, come dischi forati, viti, bulloni e cerniere, a cui chiunque può attingere, e contribuire con propri progetti, per realizzare oggetti complessi a partire da componenti più semplici. Un approccio intelligente, che non solo consente il riuso delle componenti, evitando così spreco di materie prime, ma favorisce la realizzazione di oggetti che per la loro natura modulare sono modificabili in qualsiasi momento, e quindi in continua evoluzione. Come il trattore realizzato dalla comunità “open source ecology” – un network di persone interessate ad introdurre i principi dell’open source nel mondo agricolo – progettato a partire da componenti semplici e libere da copyright: chiunque può costruirlo (o farselo costruire) seguendo le istruzioni, ad un quarto del costo del corrispettivo industriale. «Il comune denominatore tra queste esperienze», spiega Carlo Ratti, professore al MIT di Boston e co-autore del libro, «è il ribaltamento dello schema produttivo abituale che vede nel “consumatore” la tappa finale del processo di design di un oggetto. Nell’architettura come nel design stiamo passando da un modello verticale, “top-down”, dove un pugno di “Archi-stars” decide la fattura degli oggetti utilizzati da milioni di persone, ad un modello orizzontale, o, per usare un termine caro agli addetti ai lavori, “rizomatico”, ovvero agerarchico e decostruito, dove, grazie alla possibilità di comunicazione peer-to-peer fornite dalla rete, le idee progettuali circolano liberamente tra un numero indefinito di soggetti, innestandosi l’una nell’altra, e fecondandosi a vicenda». A impartire una spinta decisiva all’Open Source Design ed all’avvento di quella che, dopo decenni di omologazione industriale, si preannuncia essere l’era della personalizzazione di massa – preconizza Ratti – sarà in particolare l’evoluzione e l’abbassamento dei costi delle stampanti 3D, mirabili macchine che consentono di progettare, scaricare da internet, e poi generare manufatti dalle forme più disparate e complesse, senza bisogno di costose infrastrutture industriali. E persino se stesse: si chiama “RepRap” ed è la prima stampante 3D “autoreplicante”, programmata cioè per generare tutti i componenti di cui è composta. Pare uscita da un romanzo di Asimov, ma è già realtà.
Pubblicato su Casa Vogue, Ottobre 2012