Un ferreo protezionismo dei propri mercati interni, unito ad un iniquo sistema di sussidi che privilegia l’agricoltura di grande superficie: sono questi i principali ingredienti delle politiche agrarie della UE e soprattutto degli Stati Uniti. Introdotte nel corso del secolo scorso con lo scopo di sostenere i piccoli produttori ed il loro stile di vita, esse hanno di fatto contribuito al declino delle campagne nel Nord come nel Sud del mondo. Oggi, in piena crisi finanziaria, si moltiplicano le voci di economisti di ispirazione liberista che chiedono di ridurre, se non eliminare del tutto, i sussidi governativi dei paesi Occidentali alla propria agricoltura. Come gli economisti del “CATO” – un think-tank liberista di Washington – che propongono di creare un “libero mercato delle merci agricole su scala globale”, dove, promettono, non esisterebbero né sovrapproduzione né carestie, e dove il benessere della collettività sarebbe garantito dal bilancio perfetto di domanda e offerta. Un mondo da sogno. O forse solo una bella favola?
“Sogniamo un mondo dove il commercio agricolo possa un giorno dirsi veramente libero dai disastrosi interventi dello Stato”, spiega Sallie James, economista del CATO, un influente centro di ricerche economiche di Washington che porta avanti la causa del libero mercato in tutti i settori dell’economia statunitense. “Ne beneficerebbero innanzi tutto i contribuenti Statunitensi e Europei, che oggi pagano fior di tasse per sovvenzionare un’inutile e dannosa sovrapproduzione”, spiega. “Ed in generale i consumatori di questi paesi, poiché le attuali barriere doganali tengono i prezzi degli alimenti artificialmente alti. Negli Stati Uniti, il paesaggio agricolo subirebbe positive trasformazioni: senza gli attuali sussidi, avremmo meno colture su larga scala di mais, meno terre destinate alla produzione di biocarburante, più biodiversità.” L’impatto del libero mercato in agricoltura sarebbe tuttavia positivo su scala globale, promette la James: “I prezzi degli alimenti diminuirebbero nel loro complesso. Persino i piccoli produttori del Sud del mondo ne trarrebbero vantaggio: avrebbero finalmente accesso a ricchi mercati oggi loro preclusi e si libererebbero della concorrenza sleale dell’agricoltura sussidiata del Nord del mondo”.
Un mondo ideale, verrebbe da pensare. Se non fosse per un dubbio: in un mercato così deregolato, che chance avrebbero i piccoli produttori di difendersi dagli interessi di multinazionali e società di affari? “Il pesce grande mangia il pesce piccolo: se è il mercato a volerlo, è giusto così”, risponde lapidaria la James. “Del resto, sta già succedendo con le attuali politiche agrarie”. Ma il libero mercato non dimentica nessuno dei suoi figli, rassicura. “Se non sarà loro possibile competere a livello di prezzo, i piccoli produttori potranno comunque puntare su qualità e diversificazione: conferendo questi due valori aggiunti ai propri prodotti riceveranno senz’ombra di dubbio la benedizione del mercato”, conclude. Un saggio consiglio, indubbiamente, a patto che ad essi venga lasciata la terra su cui metterlo in pratica: l’esperienza ci insegna infatti che – se privati di colpo degli aiuti statali – molti piccoli produttori vanno incontro al fallimento. Prima ancora di aver sperimentato nuove strategie di mercato, si trovano costretti a svendere la loro terra ai grandi protagonisti dell’agrobusiness e ad abbandonare la campagna.
Un dubbio condiviso da Sergio Marelli, presidente della sezione Italiana del “Comitato Internazionale per la Sovranità Alimentare (CISA)”, che dal 1992 riunisce numerose organizzazioni della società civile allo scopo di proporre con efficacia strategie economiche alternative nei summit internazionali dedicati alle politiche alimentari (1). “L’introduzione del libero mercato sarebbe forse nell’interesse dell’agrobusiness di certi paesi specializzati nell’export delle derrate di prima necessità, come il Brasile e la Nuova Zelanda, ma non certo in quello dei piccoli produttori”, accusa. “Non mancano infatti i precedenti storici”, spiega, “per nutrire qualche dubbio sul fatto che il libero mercato sarebbe realmente d’aiuto alla piccola produzione agricola del Sud del Mondo”. Definita a rigore dagli esperti “free-market friendly” ed incentrata sul taglio dei sussidi statali e sull’apertura ai capitali esteri, la politica perseguita dalla Banca mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale negli ultimi Venti anni in Africa ci ha dato un primo assaggio degli effetti che il “libero mercato perfetto” auspicato dal CATO avrebbe sui paesi più poveri del mondo. Dall’Africa al Sud America, essa ha sostanzialmente sconvolto l’assetto agricolo tradizionale, basato sulla piccola produzione destinata a mercati locali; favorito l’abbandono delle campagne, a vantaggio dell’agricoltura intensiva su larga scala pensata per l’export; distrutto la biodiversità, come da tempo denunciano attivisti come Vandana Shiva e persino un “insider” come l’ex vice-presidente della Banca Mondiale, il premio nobel per l’economia Joseph Stiglitz. “Lungi dal risolvere il problema della fame, queste trasformazioni hanno semmai minato alla base la sovranità alimentare di quei paesi, smantellando la fitta rete di piccole produzioni sul territorio in nome dell’export, favorendo così epidemie e carestie, che mai avevano colpito l’Africa con la frequenza degli ultimi anni, soprattutto nel Corno d’Africa, nel Sahel, in Sud Africa e in Africa Centrale. “Sono in molti a credere che l’attuale crisi alimentare, che i neo-liberal amano attribuire soprattutto al recente business dei biocarburanti, abbia in realtà le sue radici nelle trasformazioni in senso liberista delle economie dei paesi del terzo mondo”. In termini di sovranità alimentare, il loro impatto sul Sud del mondo, ed in particolare in Africa, è stato indubbiamente devastante. Al tempo della decolonizzazione, negli anni ’60, il continente nero non solo era autosufficiente sotto il profilo alimentare, ma risultava addirittura essere un “esportatore netto” di alimenti, con esportazioni pari a circa 1,3 milioni di tonnellate all’anno tra il 1966-1970. Oggi, dopo un ventennio di riforme agricole imposte a macchia di leopardo dalla Banca Mondiale in cambio di aiuti economici, la situazione è capovolta: l’Africa importa circa il 25% del suo fabbisogno alimentare dall’estero e la maggior parte dei paesi Africani sono diventati “importatori netti” di alimenti”.
“Il libero mercato non è certamente l’ unica alternativa possibile alle attuali politiche agricole dei paesi industrializzati”, prosegue Marelli. La ricetta del comitato si lascia riassumere in pochi punti: 1) abolizione completa dei dazi di entrata ai prodotti agricoli provenienti dal Sud del mondo, come propongono anche i neo-liberal; 2) introduzione di leggi di controllo all’interno dei mercati finanziari per limitare le speculazioni borsistiche sui prezzi degli alimenti di prima necessità; 3) radicale, anche se graduale, revisione dei criteri di assegnamento dei sussidi. “A differenza dei liberisti, crediamo fermamente che i sussidi debbano essere mantenuti, ma assegnati sulla base di criteri completamente diversi da quelli attuali, che giudichiamo troppo sbilanciati a favore dell’agricoltura convenzionale di grande superficie e dei grandi proprietari terrieri.. Difficile non convenire con Marelli su questo punto: secondo uno studio della Banca Mondiale, oltre la metà dei sussidi dell’UE vanno all’1% dei produttori, in massima parte grandi aziende che praticano l’agricoltura intensiva (2); una situazione analoga si ha negli Stati Uniti dove i protagonisti dell’agro-business, pari al 10% dei produttori, beneficia del 70% dei sussidi di stato americani”. “Tra i principali effetti di questa iniqua politica dei sussidi”, denuncia, “vi è quello di inondare i mercati mondiali di prodotti agricoli a basso costo”. Il famigerato “effetto dumping”, che spinge i prezzi delle derrate al ribasso, mandando in rovina i piccoli produttori dei paesi in via di sviluppo. “Pensiamo ad un sistema di aiuti statali radicalmente diverso, concepito per aiutare i piccoli produttori ad accedere ai mercati locali, ad applicare prezzi ragionevoli per i loro prodotti, e per garantirsi, quando necessario, crediti per investimenti e assistenza tecnica”. “Il vero scontro”, prosegue, “non è tanto tra Nord e Sud del mondo, come si è portati a credere, quanto tra due sistemi produttivi – quello su larga scala, delle multinazionali dell’export, e quello delle realtà agricole a piccola dimensione, di produttori diretti, spesso a conduzione familiare – che coesistono, anche se mai pacificamente, nel nord come nel sud del mondo”. Un’ulteriore proposta del Comitato è quella di togliere all’Organizzazione Mondiale del Commercio la gestione delle politiche agricole. “L’accesso al cibo in quantità sufficiente per tutti e’ innanzitutto un diritto fondamentale dei popoli riconosciuto dalle Nazioni Unite. Proponiamo di riportare dunque le questioni agricole in sede ONU, magari alla FAO, un luogo dove anche i paesi in via di sviluppo possano avere una voce in capitolo”.
È presto per dire quale scuola di pensiero economico prevarrà nei prossimi anni in seno all’Unione Europea, che il 2013 è chiamata a rinnovare la sua politica agraria. Vero è che nel corso del 2011 qualche piccolo, timido segnale di cambiamento nella direzione indicata dal CISA si è registrato: lo scorso 23 Maggio, il Consiglio dell’Unione ha diramato una nota – fortemente voluta dal ministro dell’Agricoltura Francese, Bruno Le Maire – dove si promette l’introduzione a breve di severi controlli sulle speculazioni finanziarie sui beni alimentari di prima necessità; tre giorni dopo gli eurodeputati della Commissione Agricoltura hanno salutato favorevolmente la proposta del Commissario europeo all’Agricoltura, Dacian Ciolos, di porre un tetto ai sussidi per gli agricoltori, un primo passo nella direzione di una distribuzione più equa dei fondi comunitari. “Sono ottimi segnali, ma non mi farei troppe illusioni”, commenta Thierry Poutch – economista, ricercatore associato all’università di Reims e autore del libro “La guerra delle terre” (3) –, da anni fortemente schierato contro il liberismo in agricoltura. “Proprio in questi giorni sono in corso negoziati commerciali tra l’Unione Europa e stati dell’America Latina, soprattutto Brasile, Uruguay, Paraguay ed Argentina, per l’importazione di immense quantità di carne e beni agricoli di prima necessità negli anni a venire”, denuncia. “Il mio timore è che questa manovra rientri all’interno di una strategia ben precisa per fare dell’Europa un continente leader nel settore della produzione dei beni immateriali, a scapito del settore agricolo, di cui nelle alte sfere ci si augura un ridimensionamento”. Pur di fare economie nel settore dell’agricoltura, che oggi impegna il 42% (4) delle risorse dell’Unione, l’Europa starebbe dunque mettendo la propria sovranità alimentare nelle mani di potenze estere. Pur ammettendo che l’attuale sistema dei sussidi, sia in Europa che negli Stati Uniti, è profondamente iniquo, Poutch mette in guardia dai rischi di un taglio netto ai fondi di sostegno all’agricoltura. “Oggi, in periodo di crisi economica, risparmieremmo, ma quanto salato sarà il conto da pagare quando dipenderemo da altri per la nostra sopravvivenza fisica?”. “Che abbandonare l’agricoltura alle leggi del mercato sia un errore è la storia ad insegnarcelo”, conclude. “Nel corso degli anni ’30, gli Stati Uniti vissero la più profonda crisi agricola della loro storia. Senza sovvenzioni statali, il settore agricolo subì una contrazione del 60%: i contadini abbandonarono le campagne, le scorte scesero ai minimi storici e la sovranità alimentare del paese fu messa a dura prova. Nel bene e nel male, dal New Deal in poi gli Stati Uniti non hanno mai dimenticato questa lezione”. L’Europa sembrerebbe di sì.
Pubblicato su SLOWFOOD 51, Settembre 2011

(1) Il Comitato Italiano per la Sovranità Alimentare è la più ampia rete della società civile in Italia, che riunisce oltre 270 associazioni di categoria, organizzazioni non governative, sindacati, associazioni e movimenti sociali ed ambientalisti, uniti in una piattaforma multistakeholder per sostenere la Sovranità Alimentare e tutte le questioni ad essa collegate. Per affermare tale principio, il CISA propone e sostiene a tutti i livelli un modello produttivo agroecologico e di piccola scala, a tutela tanto dell’ambiente quanto degli equilibri sociali propri di ogni comunità .
(2) A questo si aggiunga che a partire dal 1992, e soprattutto dal 2005, i sussidi previsti dalla PAC sono stati slegati da una reale produzione agricola dell’azienda, assomigliando così sempre di più ad una rendita terriera. Si ha così che in cima alla lista dei beneficiari dei sussidi agricoli ci sono la regina Elisabetta d’Inghilterra e il principe Alberto di Monaco, che posseggono enormi estensioni in Europa.
(3) “La guerre des terres”, Choiseul éditions.
(4) Nel 2010, la UE ha speso 57 miliardi di euro nel settore dello sviluppo agricolo, 39 dei quali in sussidi diretti alle aziende.