Un tempo non troppo lontano, prendere in prestito dalla musica e dalla letteratura altrui non era considerato un reato, ma “condivisione”. La cultura e la conoscenza erano infatti considerate “beni comuni”, al pari dell’aria e dell’acqua dei fiumi. Nel suo ultimo libro “Common as air” lo scrittore americano Lewis Hyde traccia un’avvincente storia della proprietà intellettuale, denunciando le derive monopoliste nella società contemporanea, che egli accusa di aver smarrito completamente il significato originale del copyright: un patto giuridico basato sull’equilibro tra interessi pubblici e privati, istituito non tanto per favorire l’arricchimento del singolo, quanto per incentivarne la creatività a favore della collettività.
Professore a Harvard e Kenyon college, appuntato dalla MacArthur foundation del prestigioso premio “Genius Grant” (280 000 $). Lewis Hyde è anche autore del libro il “dono”, un saggio sull’immaginazione e vita erotica della proprietà, pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri, una raccolta di poesie e del saggio critico “Trickster make the world”.
“Se io ho una mela e tu ne hai un’altra e ce le scambiamo, ciascuno di noi rimane con una mela. Ma se io ho un’idea e tu un’altra e ce le scambiamo, ci ritroviamo con due idee a testa”. A differenza della terra, dell’acqua e delle risorse naturali – sosteneva lo scrittore e drammaturgo irlandese George Bernard Shaw – le idee sono per definizione beni immateriali e inesauribili, che non si esauriscono con l’aumentare del numero di persone che ne fruiscono. Anzi, diffondendosi si moltiplicano, come i pani e i pesci del Vangelo. Considerato per secoli un bene comune, il patrimonio culturale e creativo dell’umanità è stato fatto oggetto da alcuni decenni di una privatizzazione selvaggia. Ciò che nel corso dell’800 Inglese avvenne alle terre coltivate collettivamente – i “commons”, il cui uso, soprattutto nelle colonie, era invalso da secoli e che una legge del parlamento dichiarò illegali – tocca oggi alle idee: migliaia di recinti immateriali, chiamati diritti d’autore, ne impediscono una circolazione che fino a non molto tempo fa era libera. Chissà cosa penserebbe Shaw della bislacca clausola che si legge sul retro di un’edizione elettronica di “Alice nel paese delle meraviglie”, che recita: “Questo libro non può essere letto a voce alta”. Oppure del fatto che gli ospedali di tutto il mondo, ad esempio, rischiano denunce di violazioni di diritti d’autore se colti ad utilizzare immagini di Topolino, Paperino, Pluto o Nonna papera per rallegrare le pareti dei reparti pediatrici. Persino utilizzare la frase “Ho un sogno” per fini commerciali può rivelarsi molto pericoloso: il celebre sermone “I have a dream”di Martin Luther King Jr., pronunciato nel 1963 a Washington a coronamento della celebre marcia per i diritti civili passata alla storia, è stato messo sotto copyright dal figlio e così ridotto, da simbolo universale di libertà, a mera attività commerciale. Eppure lo stesso King non fece mai mistero di avere attinto ampiamente dai lavori di numerosi predicatori venuti prima di lui per redigere quel suo celebre discorso. Se oggi citarne poche parole equivale invece ad incorrere in una causa legale, ci fa capire quanto i tempi, nel corso di pochi decenni, siano profondamente cambiati e quanto lontani siamo ormai dallo spirito che caratterizzava le prime forme di copyright all’epoca della sua introduzione, tre secoli or sono.
Il copyright nasce nell’Inghilterra del ‘700 come un breve monopolio sul lavoro creativo per garantire all’autore una ricompensa, in cambio di una futura cessione dell’opera all’umanità. Un do ut des insomma, un equilibrato ed equo compromesso tra interesse pubblico e privato il cui scopo ultimo non era tanto remunerare gli autori, quanto fornire loro un giusto incentivo a mettere in comunione le proprie idee con la società, nella convinzione, tutta illuministica, che una società dove le idee circolano liberamente sia anche una società più prospera. I copyright di un tempo erano brevi, molto più brevi di quelli attuali. Nell’Inghilterra del 700, e fino al XIX secolo anche negli Stati Uniti, i diritti di autore su un’opera immateriale come un libro o un’invenzione duravano 14 anni, allo scadere dei quali l’autore poteva scegliere se rinnovarli per altri quattordici. Poi, col passare degli anni e col progressivo smarrimento del loro senso originario, i termini di copyright si sono allungati a dismisura. Prima 28 anni. Poi 50 per i privati e 75 per le aziende. Nel 1998, con il Copyright Term extention act (noto anche come “Mickey Mouse Protection Act”, perché in quell’anno il monopolio della Disney sul celebre topo stava per scadere), la durata del copyright è stata estesa di altri vent’anni, impedendo così che gran parte della letteratura del primo ‘900 diventasse finalmente di dominio pubblico. “Comincia ad essere un periodo così lungo da essere pressoché indistinguibile da un copyright perpetuo”, denuncia Hyde nel suo libro. Un’eventualità tutt’altro che improbabile: alla domanda “Quanto dovrebbero durare secondo Lei i termini di copyright?”, Jack Valenti, celebre lobbista di Hollywood, ha risposto in un’intervista del New York Times: “Per sempre, meno un giorno”.
Il senso originario del copyright, come patto equo tra singolo e società, ha dunque subito un inesorabile processo di annacquamento, fino a scomparire. A preoccupare Hyde tuttavia non è solo l’inesorabile allungarsi dei tempi di vita dei copyright, ma anche il fatto che un numero crescente di tipologie di prodotti culturali, un tempo non brevettabili, stiano finendo col tempo in mani private. “In ambito scientifico, ad esempio, è venuta meno la tradizionale distinzione tra ‘scoperta’ e ‘invenzione’”, denuncia lo scrittore. “Per secoli era pacifico che non si potessero possedere in alcun modo le leggi e i fatti della natura. Oggi non è più così”. Via via che il genoma umano veniva decodificato – denuncia Hyde – numerosi geni sono stati brevettati da alcune compagnie, come ad esempio quelli coinvolti nella genesi del cancro al seno. “Chiunque in futuro vorrà lavorare su quei geni, per inventare ad esempio un test per diagnosticare tempestivamente il cancro al seno, o magari scoprirne una cura efficace, dovrà mettere in conto di pagare pesanti royalties a questa compagnia.” Benjamin Franklin scoprì l’elettricità, non la inventò, e infatti mai tentò di brevettarla. Oggi permettiamo invece che capitali privati si accaparrino fette cospicue del libro della vita. “È un crimine contro l’umanità, davanti al quale non possiamo che indignarci. Quante invenzioni non potranno essere fatte per colpa di questo bavaglio su un’informazione che dovrebbe essere patrimonio dell’umanità?”.
Le leggi attualmente in vigore sulla proprietà intellettuale non sono né ovvie e scontate, spiega Hyde, né tantomeno radicate nella nostra storia. “Anzi, la proprietà intellettuale non solo è un’idea recente, ma anche decisamente anomala. Appartiene al nostro tempo, e neanche da tanto. E’ un’idea più giovane delle automobili, delle lampadine, del jazz”. I padri fondatori della nazione Americana, ci ricorda Hyde, avevano una concezione della proprietà intellettuale ben diversa da quella attuale. “Animati com’erano da forti ideali di autogoverno e repubblicanesimo civico, i padri fondatori erano fautori di una società dove, nell’interesse di tutti, idee e conoscenza fossero liberi di circolare senza impedimento di sorta”. John Adam – secondo presidente degli Stati Uniti, eroe della guerra d’indipendenza ed illuminista convinto – attaccò violentemente lo Stamp Act tacciandolo di “tassa sulla conoscenza”; Benjamin Franklin – l’inventore del parafulmine – non solo non ritenne mai opportuno porre un brevetto sulle sue invenzioni, ma addirittura invitava gli artigiani a “trafugare” negli Stati Uniti idee e segreti industriali dall’Inghilterra; Thomas Jefferson si domandava addirittura se le leggi sul copyright non fossero sempre e comunque deleterie per la società e tentò addirittura di proibire i brevetti con un articolo ad hoc da inserire nel Bill of Rights. “La nozione attuale di copyright”, prosegue lo scrittore, “riflette l’immagine che abbiamo di noi stessi nella società contemporanea: ci aggiriamo come monadi solitarie, individui slegati l’uno dall’altro, pressoché auto-sufficienti, ossessionati dalla salvaguardia del riconoscimento di diritti individuali e completamente incuranti dei doveri verso la collettività.
A chi accusa il suo lavoro di anacronismo, Hyde risponde che gli ideali di una “repubblica delle lettere”, per lontani nel tempo che possano sembrare, sono sempre vivi, sotto varie forme, nella società attuale, e animano l’azione di numerosi focolai di resistenza allo stradominio del copyright. Come l’organizzazione “The Free Software Foundation”, attiva dalla metà degli anni ’80, che non solo ha promosso il diritto all’uso libero e gratuito dei software per computer, ma ha anche messo a punto degli strumenti legali per impedire attivamente che essi cadano in mano private. “Creative Commons”, da tempo diffusa a livello internazionale, permette a chi lo desidera di alleggerire i vincoli del copyright sul proprio lavoro. Oppure il Network “Public Access” o “the Public Library of Science”, che consentono a scienziati e ricercatori di condividere il proprio lavoro con la comunità scientifica. Nuclei di resistenza alle derive del copyright già esistono insomma. “Mi auguro che tali realtà si uniscano presto per creare un’entità più grande, capace di fare operazioni di lobbying ed organizzare campagne per cambiare le leggi vigenti, suggerisce lo scrittore. Nell’attesa che questo accada, la resistenza può avvenire all’interno delle singole comunità, che possono scegliere di adottare regole diverse per la regolamentazione della proprietà intellettuale”. Aiuterebbe molto – suggerisce lo scrittore – reintrodurre le vecchie formalità di registrazione e rinnovo dei diritti d’autore, abolite più di un secolo fa dalla convenzione di Berna nel tentativo facilitare l’armonizzazione tra leggi sulla proprietà intellettuale vigenti in paesi diversi. “Per molto tempo, l’obbligo di rinnovo ha infatti contribuito di fatto a dimezzare i tempi di copyright su moltissime opere: molti autori non rinnovavano il periodo di copertura da copyright, sia per atto di filantropia, sia perché dopo alcuni anni il valore commerciale di molte opere è pressoché nullo”.
Ma è nei paesi in via di sviluppo – da tempo oggetto di pesanti pressioni da parte del Nord del mondo perché adottino leggi sulla proprietà intellettuale conformi agli stringenti parametri occidentali – che Hyde si augura la nascita di un movimento di resistenza alle forze monopoliste. “I paesi esportatori di idee e tecnologie tendono ad avere leggi più restrittive sul copyright e ad imporle ai paesi importatori. Fino all’800, gli Stati Uniti avevano una delle leggi più tolleranti al mondo, perché vivevano dei furti intellettuali dall’Europa. Negli ultimi anni, gli USA hanno invece esercitato tutta la loro influenza per imporre a numerosi paesi in via di sviluppo – sotto minaccia di applicare sanzioni commerciali – leggi sulla proprietà intellettuale di stampo occidentale. L’ultimo della lista è stato l’Irak, dove gli order “81” e “83” introducono addirittura il copyright su certe registrazioni del Corano, e, per compiacere Monsanto, quello sulle “nuove specie vegetali”, di cui è proibito conservare i semi per l’anno successivo. “Imporre ad un altro popolo la propria legge sul copyright, mirando a sovvertire tradizioni talvolta millenarie, altro non è che una nuova, insidiosa e quanto mai perniciosa forma di colonialismo. A tali attacchi si può, anzi si deve, resistere con ogni mezzo”.
Pubblicato su SLOWFOOD 50, Maggio 2011
Lo Stamp Act è una legge approvata dal Parlamento Britannico nel 1765 che consisteva nella tassazione del trasferimento di determinati documenti provenienti dalle colonie inglesi in America. (wikipedia)
La convenzione di Berna stabilisce che ogni contraente deve riconoscere come soggetto a diritto d’autore anche il lavoro creato da cittadini degli altri stati contraenti. La tutela è automatica, nessuna registrazione è richiesta e neppure è necessario apporre un avviso di copyright. Inoltre alle nazioni firmatarie è proibito richiedere alcuna formalità che possa ostacolare il “godimento e l’esercizio” del diritto d’autore come, per esempio, una registrazione degli autori stranieri. (wikipedia)