Con oltre trenta ricette di risotti diverse, negli ultimi anni i due fratelli Costardi, poco più di cinquant’anni in due, hanno fatto del celebre piatto Piemontese il cavallo di battaglia del ristorante di famiglia, il “Cinzia” a Vercelli, riuscendo a trasformarlo da ristorante senza troppe pretese ad una meta obbligata per chiunque orbiti tra Torino e Milano.
“Perché fare del riso la nostra bandiera? Beh, siamo nati a Vercelli, circondati da risaie a perdita d’occhio. Il riso appartiene al nostro patrimonio genetico, una presenza costante nella nostra vita. Tra le risaie abbiamo corso e giocato da bambini. Le risaie sono la prima cosa che abbiamo visto al mondo dopo nostra madre”. Quando parlano di riso, i fratelli Costardi si infervorano, i loro occhi si illuminano, tradendo così l’entusiasmo dei loro 32 (Christian) e 23 (Manuel) anni. “Il riso è l’alimento più consumato al mondo, ma solo la gastronomia italiana ha saputo rendergli giustizia, consacrandogli un piatto vero e proprio: il risotto. In tutte le altre culture gastronomiche del mondo, fatta eccezione per la Spagna e la sua paella, il riso è ingiustamente relegato al ruolo di companatico”. L’avventura dei fratelli Costardi prende avvio nel 2004, anno in cui Christian, dopo aver lavorato in vari grandi alberghi del Lago Maggiore e al Westin Europa & Regina di Venezia, torna a vivere a Vercelli e decide di mettere la sua esperienza di chef al servizio del “Cinzia”, il ristorante di famiglia annesso all’omonimo albergo, fondato nel 1967 dai suoi nonni. “Il destino ha voluto chequello fosse l‘anno internazionale del riso”. Christian rievoca con un pizzico di nostalgia la sera in cui, seduti attorno ad una tavola del ristorante con la mamma, il fratello e la nonna, all’epoca ancora con loro, decisero di dare una nuova impronta all’attività gastronomica di famiglia. “Decidemmo così`di trasformare il ristorante in una risotteria, un nome che non fa immediatamente rima con alta qualità. La nostra sfida è stata quella di crearne una di alto livello”. Dai risultati ottenuti, sembrano aver centrato appieno l’obiettivo: nel 2009 la guida del Touring Club li insignisce di una medaglia e tre forchette; l’anno successivo, L’Espresso li segnala come “migliori emergenti” dell’anno; e, sempre nel 2010, coronano il sogno di ogni chef: la guida Michelin li insignisce di una stella.
Nei numerosi articoli che la stampa specialistica ha dedicato ai due “fratelli del risotto”, si legge di come i compiti in cucina tra i due siano ben suddivisi: Christian si occupa principalmente dei primi e dei secondi, e della comunicazione, mentre Manuel dei dolci e dei dessert, oltreché dell’organizzazione in sala. “Sì, è stato scritto più volte che io sarei l’anima salata del ristorante, mentre Manuel quella dolce. In realtà la nostra identità gastronomica e’ unica. Da un punto di vista gastronomico, io e Manuel siamo l’uno il completamento dell’altro. Pur rispettando ciascuno la sfera dell’altro, ogni nuova ricetta nasce da un’interazione.” Una delle loro ultime creazioni, spiegano, esemplifica al meglio questa sinergia creativa tra fratelli: il “dolce salto di riso”. “Non si tratta di un banale dolce a base di riso”, ci tiene a precisare Manuel con una punta di malcelato orgoglio, “bensì di un risotto dolce!”. Un risotto, ottenuto sfumando con rhum e non con vino bianco, aggiungendo brodo di agrumi,vaniglia e zucchero al posto del brodo, e mantecando non con il burro ma con crema pasticcera legata con mascarpone e raffreddata. “Per sottolineare il fatto che si tratta di un risotto, abbiamo deciso di servirlo nel modo in cui il risotto e’ più comunemente impiattato, ovvero al “salto”, impreziosito da gelato al pistacchio e pomodori canditi.
Con l’inizio del nuovo anno i fratelli Costardi hanno inaugurato un nuovo modo di proporre la loro cucina ai clienti del “Cinzia”. “Abbiamo eliminato la tradizionale lista dei piatti”, spiega, “sostituendola con quattro menu degustazione diversi dal nome “creazione”, “passione”, “emozione” e “territorio”, che riassumono la nostra filosofia”. Il cliente può scegliere di degustare l’intero menu, oppure selezionare un solo piatto e mangiarlo singolarmente. Costituisce un’eccezione il menù “creazione”, scegliendo il quale il cliente si affida allo chef per una degustazione a più portate. “E’ il menu con cui mi diverto di più”, confessa ridacchiando Costardi, “e nel quale sono solito proporre una delle mie ultime creazioni, il “Carnaroli pomodoro e basilico”, un piatto che suona semplice e banale, e che invece nasconde le sue complessità”. Si tratta, spiega, di un risotto ottenuto sostituendo a metà cottura una densa salsa di pomodoro al brodo, e poi servito con una lieve aggiunta di pesto e fette di limone. “La parte più dura è stata cercare il pomodoro adatto. Siamo stati sedotti da un pomodoro Pugliese, proposto dall’azienda “Baglione”, che offre il giusto equilibrio tra acidità e dolcezza, consistenza e morbidezza necessario per questo piatto. “Dovreste vedere la faccia che fanno i clienti quando annuncio l’arrivo di un riso al pomodoro.. A metà tra il deluso e il terrorizzato…Siamo tutti un po’ traumatizzati da quello che ci servivano all’asilo, no? Poi lo assaggiano, mi guardano con stupore… e come per magia il trauma dell’infanzia è vinto!”. Poi prosegue: “ E’ il piatto che più rappresenta la nostra evoluzione attuale: celebrare la semplicità che accomuna molti dei più grandi piatti della nostra tradizione gastronomica. Del resto riuscire a raggiungere risultati straordinari con pochi mezzi a disposizione è – credo in ogni settore, e non solo la cucina – la più avvincente delle sfide”. Ma a detta di molti è il menu “Territorio”, lo stesso che i due fratelli hanno proposto al Salone del Gusto 2010, quello dove la fantasia dei giovani chef si esprime al meglio. “Al salone ha avuto molto successo il nostro “Carnaroli con bocconcini di coniglio e fois gras”, dove abbiamo raccontato il territorio raccogliendo i sapori e gli odori più tipici della tradizione monferrina, a partire dal soffritto molto intenso di sedano carota e cipolla, il coniglio sfumato con brandy, l’aggiunta di timo… un piatto che lavora con i ricordi, una passeggiata in campagna, il ricordo di una nonna che sforna un coniglio al forno, in una cucina intrisa dell’odore del soffritto..”. Ad evocarlo visivamente ci pensa invece “La risaia d’inverno”, il dolce che Manuel ha messo a punto per concludere il menu del salone: “D’inverno la risaia è marrone. Ne ho dipinto i colori con una crema di castagne disposta sul fondo del piatto, il cui odore ricorda anche quello inconfondibile della terriccio bagnato”. Una cornice di pasta sfoglia ne ricostruisce poi i bordi, una pioggia di biscotti sbriciolati e quenelle di cioccolato fondente creano l’effetto visivo delle zolle mosse per aerare il terreno. “Ho decorato il tutto con yogurt montato e raffreddato con azoto liquido, per rendere i surreali giochi di neve e nebbia che caratterizzano la campagna di Vercelli nei mesi invernali. La risaia e’ infatti sempre bella, quando c’e’ l’acqua, quando e’ fiorita, quando e’ gialla. Ma è d’inverno, immersa com’è nei suoi fumi, che è più suggestiva”. Ma è con il riso, come dubitarne, che la cucina dei Costardi tocca i picchi pittorici più alti. “Ci piace dire che il riso è per uno chef come la tela per un pittore”, spiega Christian, “un supporto gastronomico neutro, che difficilmente non si sposa con un altro ingrediente, e che invita per questo a sbizzarrire la fantasia”. E non si tratta, come potrebbe sembrare, di una semplice metafora. “Abbiamo testato sul risotto la celebre tecnica pittorica di Pollock, il “drifting”, schizzandolo con una crema di formaggi e una riduzione di vino su un carnaroli al Barbera d’Asti superiore. Oppure, con il nero di seppia, ed emulsioni di rucola e peperoni, il tutto impreziosito da microverdure e gamberi. “Lo scopo è suscitare un’emozione che duri nel tempo”, conclude Manuel. “Una sfida ancora più ardua per uno chef, che per un pittore. “Un piatto lo mangi una volta sola: a differenza di un quadro, non ti è dato di rivederlo”.
Invitato a varcare la soglia del Sancta Sanctorum del “Cinzia”, circondato da una miriade di pentole e pentoloni di rame di ogni dimensione, mi risulta impossibile resistere alla tentazione di fare un terzo grado ai “fratelli del risotto” e carpirne i segreti per preparare un risotto perfetto. “Tanto per cominciare, aglio o cipolla per il soffritto? “Che domande”, risponde Christian, “Cipolla, di preferenza cipolla bianca, tritata molto finemente. Il mio segreto è passarla al frullatore, così che diventi un tutt’uno con l’olio extravergine. Così si evita il rischio che l’atto degustativo venga disturbato da un pezzettino di cipolla finito in bocca”. Quanto deve durare la tostatura? “Qua a Vercelli si suole dire… finché il riso non canta”, risponde Manuel. “Fino a quando cioè non sfrigola insieme all’olio, e raggiunge temperature così elevate che inizia a saltellare sul fondo della pentola. Una fase cruciale, spiegano Costardi, perché solo ad alte temperature il riso apre i suoi pori, predisponendosi così ad accogliere appieno i sapori, e particolarmente delicata, perché basta una distrazione perché il riso prenda il sapore di bruciato, che rovinerebbe irrimediabilmente il piatto. “A questo punto, dopo aver prontamente sfumato col vino bianco o altre sostanze alcoliche, per abbassare temporaneamente la temperatura e correggere al contempo l’acidità, si procede com’è noto con la graduale aggiunta del brodo, rimestando ogni tanto. Poi verso metà cottura si aggiungono gli altri ingredienti, come una verdura, funghi o la carne di un pesce, e si conclude mantecando con una noce di burro e abbondante grana grattugiato. Voila. “Il brodo deve essere sempre tenuto in ebollizione”, ricorda, ammonendo col dito indice. “Guai a causare choc termici al risotto! Diventerebbe poi impossibile ottenerlo al dente”. Per troppo tempo, spiega con un filo di amarezza Christian, si è prestato poca attenzione ad ottenere un risotto al dente. Trovo che in generale l’atto di masticare sia imprescindibile per assaporare appieno un piatto, e a maggior per un risotto. Se il riso non è al dente, perde la sua “cerealicità, e con essa la sua più intima natura”.
Pubblicato su SLOWFOOD 50