In soli sei mesi, tra l’Aprile e il Settembre 2010, i prezzi mondiali del grano sono aumentati del 40%, mentre quelli del mais del 30%. Secondo l’organizzazione inglese “World development movement”, sono le speculazioni borsistiche sul prezzo dei generi alimentari di prima necessità, ancora una volta, ad infuocarne i prezzi di listino: a distanza di soli due anni, torna così a incutere timore lo spettro della crisi alimentare del 2008.
Sono molti gli aneddoti nati attorno a Talete che raccontano come il filosofo di Mileto, oltre alla fervida attività speculativa, amasse cimentarsi con attività ben più terrene, come la politica e, soprattutto, gli affari. Si racconta ad esempio che un anno, prevedendo che i raccolti sarebbero stati abbondanti, comprò tutte le macine da frantoio della città. In un’altra versione della stessa storia, Talete spiega di aver fatto questo non per arricchirsi, ma per dimostrare ai suoi concittadini che, se solo lo avesse desiderato, avrebbe potuto arricchirsi usando solo la sua intelligenza, senza muovere un muscolo. Nacque forse così l’idea di speculare sull’abbondanza dei raccolti. Speculare sul prezzo futuro di un raccolto non è necessariamente una pratica dai connotati negativi. Per oltre un secolo, i contadini dei paesi occidentali hanno fatto un uso intelligente dell’option trading per distribuire ad altri soggetti, come i rivenditori e i distributori, gran parte dei rischi legati alla loro attività. Vendendo ad un prezzo fisso e sicuro già a Gennaio il raccolto di Agosto, i contadini per decenni hanno ottenuto così di minimizzare i rischi legati ad una brutta annata, rinunciando ad una fetta dei guadagni nel caso l’annata fosse stata particolarmente buona. Il sistema ha funzionato fino a quando simili accordi venivano stipulati tra addetti ai lavori – contadini, consumatori o distributori che fossero . “I problemi sono sorti durante gli anni ’90, quando grazie a notevoli pressioni, la Goldman Sachs ed altre banche, ottennero di deregolare questo antico sistema” – spiega il giornalista Johann Hari, dell’ “Independent”. “Attraverso la creazione di derivatives, gli accordi di vendita preventiva dei raccolti iniziarono, per la prima volta nella storia, a passare di mano in mano tra soggetti che nulla avevano a che vedere con il settore agricolo” Furono poste così le basi per un nuovo, lucroso mercato: quello delle speculazioni sul prezzo del cibo. In esso non operano più contadini, rivenditori o altri addetti ai lavori, ma incravattati operatori finanziari comodamente seduti dietro ad un computer, magari a migliaia di chilometri di distanza dai luoghi di produzione del cibo. Fu così che grano e mais, rame ed oro furono messi fatalmente nello stesso calderone, ignorando il fatto che con i primi si alimenta la vita, mentre con i secondi no.
Occorre però attendere l’esplosione della bolla immobiliare, nel 2006, per vedere gli effetti più nefasti di questa nuova, spersonalizzata pratica di compravendita di generi alimentari. In quell’anno, molti operatori finanziari come la Goldman Sachs ritirarono gran parte dei loro investimenti dal mercato immobiliare statunitense. Ritenendo che, mentre il resto dell’economia stagnava, i prezzi del cibo – per colpa di una congiuntura sfavorevole, dovuta a molti fattori, tra cui il caro-petrolio – sarebbero rimasti costanti, o addirittura aumentati, investirono ingenti somme in fondi agricoli; in un periodo di tali turbolenze borsistiche, l’esempio fu seguito immediatamente da migliaia di altri piccoli investitori spaventati. Avvenne così che, nonostante domanda e offerta di cibo siano rimaste sostanzialmente costanti in quel periodo, la domanda di derivati finanziari su certi generi alimentari come grano e mais aumentò molto, causando un generale rialzo dei prezzi. Il valore complessivo di queste operazioni finanziarie non soggette a particolari restrizioni raggiunse, alla fine del 2007, il valore record di 9 000 miliardi di dollari, più del doppio del valore dei contratti sul mercato regolare. Le conseguenze di questo immenso spostamento di capitali, dal mattone al cibo, sulla vita di milioni di abitanti dei paesi in via di sviluppo, dove la spesa per il cibo può rappresentare tra il 50 e il 60% delle entrate, sono ben note: già messe in ginocchio dalla crisi economica, le popolazioni più povere del mondo furono investite dalla crisi alimentare, portando in pochi mesi il numero delle persone che soffrono la fame a livelli storici: più di 1 miliardo secondo le stime FAO. Jean Ziegler, Special Rapporteur sul diritto al cibo delle Nazioni Unite, non esitò a parlare in quell’occasione di “silenzioso massacro di massa”, dovuto non a fattori naturali, come carestie o siccità, ma interamente ad “azioni e decisioni umane”. “Non fu una crisi alimentare, ma una crisi dovuta ai prezzi degli alimenti”, ha precisato più volte il suo successore Olivier de Schutter, sottolineando il fatto che all’origine della crisi non vi sia stato nessun calo nella produzione mondiale degli alimenti di largo consumo.“Fu uno tsunami, ma non per gli operatori finanziari del settore”, attacca l’associazione World Development Movement. “Si è giocato un macabro gioco d’azzardo, in cui le fiches erano gli stomachi dei più poveri del mondo”.
Dal canto loro, le banche si difendono dalle pesanti accuse. “Chi ci accusa di aver speculato sulla fame del mondo non capisce niente di finanza”, contrattacca un portavoce della Goldman Sachs in un forum dedicato all’argomento sul sito del Guardian, obiettando che i futures sui beni alimentari di largo consumo non solo non avrebbero aggravato la crisi, ma, anzi, avrebbero addirittura salvato il mondo da una penuria di cibo. “Anticipando cioè di un anno un aumento dei prezzi che, vista la congiuntura internazionale, era inevitabile, i futures ne hanno “ammortizzato” le peggiori conseguenze: hanno ridotto i consumi e spinto ad un aumento della produzione ed al suo stoccaggio, evitando così scarsità di cibo l’anno successivo. Si tratta del resto di un gioco a somma-zero tra i suoi contendenti: per una banca che guadagna ce n’è un’altra che perde. È falsa dunque l’accusa che abbiamo fatto dei profitti sulla pelle dei più poveri.”. L’indice accusatorio – prosegue la banca, citando il rapporto dell’OECD – andrebbe puntato piuttosto contro l’aumento del consumo di carne da parte dei paesi in via di sviluppo, e, parallelamente, contro il mercato dei biocarburanti, in quelli sviluppati.
Di avviso diametralmente opposto la Prof.sa Ghosh, del centro di Studi Economici di New Delhi. “L’aumento del consumo mondiale di carne, il caro-petrolio, le conseguenze del cambiamento climatico e la febbre dei biocarburanti hanno causato un aumento graduale dei prezzi, sì, ma non ne spiegano la grande volatilità in questi ultimi anni. Per farlo, basta seguire i movimenti del “denaro avvelenato” legato alle speculazioni. Nel Giugno del 2008, ad esempio, con l’acuirsi della crisi del mercato immobiliare statunitense, molti fondi furono costretti a ritirare ingenti somme di denaro investite nel mercato delle food commodities per disporre di liquidità con cui tamponare le perdite in altri settori: questo si tradusse in un crollo improvviso dei prezzi dei futures, e, a ruota, dei prezzi di mercato del cibo. “La prova del nove ci viene fornita”, prosegue la Gosh, “se si prendono poi in esame i prezzi di alcuni generi alimentari, come il miglio, la manioca e le patate. Il prezzo di questi generi alimentari è aumentato, ma solo di una frazione di quanto si è registrato per i generi alimentari fatti oggetto di speculazioni, come grano e mais. Non è vero, infine, che i coltivatori beneficiano di un aumento dei prezzi, se esso fluttua imprevedibilmente. Quando i prezzi vanno su e giù come uno yo-yo, gli effetti sono sempre molto negativi, sia per i produttori che per i consumatori; a trarne vantaggio sono quasi sempre solo gli intermediari.” Seppur l’argomento rimane controverso, sono sempre di più le istituzioni che indicano nelle speculazioni borsistiche uno dei principali fattori che hanno portato alla crisi alimentare. Lo riconosce addirittura la Banca Mondiale – organizzazione non certo nota per prendere le difese dei più deboli – in una sua recente ricerca. In essa, si legge, “la finanziarizzazione dei beni alimentari di largo consumo ha giocato un ruolo decisivo nel determinare le rapide fluttuazioni dei prezzi”.
A distanza di due anni e mezzo, la situazione non sembra essere cambiata di molto; anzi, sono molti gli indizi che lasciano presagire che nell’immediato futuro vivremo una nuova, grave ondata di instabilità nei prezzi del cibo. Se nei paesi più poveri del mondo ci si lecca ancora le ferite per quanto avvenuto negli anni terribili 2007-2008, nelle piazze di scambio è ripreso vivace come non mai il mercato dei futures, che del resto, nonostante quanto avvenuto, non ha mai conosciuto una vera e propria battuta di arresto: nel 2009, a crisi rientrata, la Goldman Sachs ha infatti comunque totalizzato guadagni per oltre 1 miliardo di dollari da speculazioni sul prezzo del cibo. Gli ultimi eventi internazionali, come la siccità in Russia ed il recente calo nella produzione Americana, hanno fatto schizzare improvvisamente in alto i prezzi degli alimenti, che pure erano già saliti gradualmente dall’inizio dell’anno. Mais: +63%; grano +84%, soya + 24, zucchero +55%. Aumenti che, in assenza di una vera regolamentazione, suonano come un invito a ballare per gli speculatori. Durante i mesi estivi – stima il World Development Movement – gli speculatori finanziari della sola borsa di Chicago hanno comprato futures del mais per una quantità complessiva di 1.7 miliardi di bushel, ovvero più di quanto ne consumi ogni anno il Brasile, paese di 260 milioni di abitanti e terzo consumatore mondiale di questo cereale. “Solo durante l’estate, si è registrato un aumento del 150% dell’acquisto di futures sul mais da parte degli speculatori. Se si prende in esame invece il grano, gli acquisti nello stesso periodo sono stati pari a 241 bushel, ovvero sette volte quanto ne consuma annualmente il Kenya, circa metà del raccolto Britannico. E c’è già chi, come la giornalista americana Addison Wiggin, titola provocatoriamente un suo articolo per il quotidiano Daily Reckoning “Lo shock alimentare del 2011”, denunciando come la macchina da guerra della finanza stia già affilando i coltelli, e che una nuova crisi dei prezzi dei generi alimentari è già alle porte. La giornalista segnala peraltro l’arrivo, sul mercato degli alimentari, di nuovi, inquietanti prodotti finanziari, i cosiddetti ETF funds: a differenza dei fondi comuni, che valorizzano solitamente a fine giornata, gli ETF vengono scambiati nel continuo, proprio come un titolo azionario, garantendo agli speculatori, a suo dire, ancora maggior margini di manovra rispetto ai futures.
Eppure, proprio dagli Stati Uniti, soffia un vento di speranza. A seguito di una richiesta di maggiori regole invocata, lo scorso giugno, dalla FAO, il 21 Luglio Barack Obama ha firmato una legge che chiude finalmente molte delle scappatoie legali usate dagli speculatori per giocare a piacimento sui prezzi del cibo. “Abbiamo lanciato una campagna perché una simile legislazione venga introdotta anche in Europa, al più presto”, dichiara la portavoce del World Development Movement. Sappiamo che sia il presidente Francese Sarkozy che la cancelliera tedesca Merkel stanno lavorando ad un simile progetto di legge anche per l”Unione, ma temiamo che esso troverà resistenze nel Regno Unito, dove di fatto avvengono gran parte delle transazioni dei futures sul cibo. Il nuovo presidente David Cameron”, accusa, “è infatti molto vicino alle lobby della City e ne porta avanti gli interessi”. È emblematico però che lo stesso giorno di Luglio, dall’altra parte dell’Oceano, un noto hedge fund Londinese, Armajaro , abbia deciso di seguire l’esempio di Talete, acquistando ben 241,100 tonnellate di fave di cacao, pari al 7% della produzione mondiale, e facendo così schizzare i prezzi al valore più alto mai registrato negli ultimi 33 anni. La novità, questa volta, è che l’ingente quantitativo acquistato, che occuperebbe ben 7 Titanic, è stato regolarmente consegnato e stoccato nei dintorni di Londra. Una procedura insolita per un operatore finanziario, che lascia interdetti: cosa avverrebbe se l’esempio fosse seguito da altri con beni alimentari di più stretta prima necessità?
Pubblicato su SLOWFOOD 49, Febbraio 2011
Undici fattori che influenzano al rialzo il prezzo degli alimenti (dalla Conferenza tenuta del Prof. Malagoli a Terra Madre il 22 Ottobre alle 15, sala H)
- Aumento della popolazione mondiale. L’aumento del numero delle persone che vivono sul globo (8 miliardi entro il 2020), causa un aumento del prezzo degli alimenti, soggetto, come qualsiasi altra merce, alla legge della domanda e dell’offerta.
- Concentrazione della popolazione mondiale nelle metropoli. Esistono ormai città di 20-30 milioni di abitanti, con una popolazione di poco inferiore a metà di quella Italiana. La concentrazione della popolazione mondiale nelle metropoli influisce negativamente sul prezzo del cibo perché col diminuire della popolazione rurale aumentano anche i costi di distribuzione degli alimenti.
- Calo della produzione dovuto a congiunture climatiche particolarmente avverse . Nel corso del 2010, gli incendi in Russia, ad esempio, o la penuria dei raccolti americani hanno causato un sensibile calo dell’offerta.
- Aumento dei competitori nell’utilizzo del cibo per scopi diversi dall’alimentazione. L’allevamento animale e l’utilizzo degli alimenti per la produzione di bio-carburanti aumentano sensibilmente la domanda globale di cibo, con inevitabili ricadute sul prezzo di molti alimenti di prima necessità, come soia e mais.
- Poiché gli antichi sceglievano per i loro insediamenti urbani i terreni migliori, capaci di garantire alle città un facile approvvigionamento alimentare con coltivazioni in loco, La cementificazione dovuta all’espansione selvaggia delle città interessa oggi spesso le terre più fertili. Anche questa “perdita” di terreni fertili e quindi di raccolti si traduce indirettamente in un aumento dei prezzi del cibo.
- La conversione massiccia dell’agricoltura di molti paesi in via di sviluppo ai cosiddetti generi alimentari “voluttuari” (quelli cioè non strettamente necessari all’alimentazione e alla vita) per paesi ricchi, come caffè, cacao e gamberetti va a scapito della produzione di alimenti di prima necessità per le popolazioni locali, con inevitabili conseguenze sui prezzi.
- Nell’epoca dei mercati alimentari globalizzati, l’alto tenore di vita dei paesi ricchi e gli ingenti sprechi che esso porta con sé causano più o meno direttamente un aumento del prezzo degli alimenti anche in quelli del sud del mondo. Secondo alcune stime, sarebbero necessari ad esempio 7 pianeti Terra per sostenere gli allevamenti animali se tutti i paesi seguissero una dieta ricca di carne come quella dei paesi ricchi
- Aumento del prezzo del petrolio. Il prezzo dei prodotti agricoli è direttamente legato a quello del petrolio, da cui dipende il funzionamento dei macchinari, la produzione di concimi sintetici e la distribuzione. Quando il prezzo del greggio aumenta, quello degli alimenti aumenta di conseguenza.
- Per limitare le eccedenze sul mercato, le politiche agricole attualmente in vigore nella EU e negli USA prevedono che gli agricoltori vengano pagati per il “set aside”, per non coltivare cioè una parte dei loro terreni. Questo si traduce ovviamente in un calo dell’offerta di cibo, e in un aumento dei prezzi.
- “Land Grabbing” (cfr. SLOWFOOD #47). L’ “acquisizione” di enormi appezzamenti di terreno dei paesi più poveri da parte di alcuni paesi ricchi per la produzione di cibo da esportazione causa, come nel caso dei beni alimentari voluttuari, un calo dell’offerta di generi alimentari per le popolazioni locali, e, sempre localmente, un aumento dei prezzi.
- Speculazioni finanziarie sul prezzo del cibo. Nelle piazze borsistiche si è speculato selvaggiamente (e si continua a farlo) sul rialzo del prezzo di alcuni generi alimentari di prima necessità, senza pensare alle conseguenze, spesso drammatiche, che questo può avere sulle fasce più povere del pianeta, che per nutrirsi spendono gran parte dei loro introiti. La speculazione borsistica è considerata il fattore maggiormente responsabile della straordinaria volatilità dei prezzi registrata nei mercati alimentari negli ultimi tre anni.