Catalano, originario del Barrio Carmelo di Barcellona, a soli 33 anni può dire di aver già collaborato con mostri sacri come Ruscalleda e Adrià; pochi anni fa – all’epoca in cui lavorava al ristorante Lasarte di Barcellona sotto la direzione di Martin Berasateguis – gli vengono riconosciute, ancora giovanissimo, ben due stelle Michelin. Da due anni è capo-chef all’esclusivo Soneva Fushi, uno spettacolare resort incastonato come una gemma sull’isola privata di Kunfunadhoo, nell’atollo di Baa nelle Maldive. Qui, circondato dalla natura selvaggia, sperimenta una cucina fusion molto personale, rigorosamente biologica, locale e leggera, a metà strada tra la tradizione gastronomica asiatica – maldiviana e srilankese, ma anche indiana, thai ed estremo-orientale – e l’avanguardia culinaria europea in cui si è formato.
“L’isola dove vivo è coperta per il 70% da una foresta fitta e incontaminata”, racconta, davanti ad un cocktail ai frutti tropicali, seduto al tavolo di un piccolo bar della Spiaggia delle Tartarughe, un minuscolo porticciolo situato sulla punta estrema dell’isola di Kunfunadhoo, a cui,possono accedere, via mare, solo i fornitori dell’hotel. Quando gli impegni del ristorante lo permettono, confessa, ama ritirarsi in questo posto. “Soprattutto al tramonto, quando vi regna una quiete assoluta”. “Può sembrare strano, ma anche su un atollo sperduto nell’oceano Indiano la vita può essere stressante”, ci tiene a precisare. Con 140 persone al suo servizio, tra staff di sala e cucina, da dirigere ed una clientela estremamente esigente, le responsabilità non gli mancano. Il tempo per andare a farsi un bagno? Un miraggio. Eppure quale chef non vorrebbe essere al posto suo: per i suoi piatti ha a disposizione un enorme orto che cura quotidianamente di persona, e pesce freschissimo, pescato solo all’amo da pescatori del posto. Il resto lo reperisce in quello che, ironicamente, chiama “il suo supermercato”, e che indica tracciando un arco con la mano a coprire tutto l’entroterra della baia: la foresta.
Come un “piccolo principe”, Alex Garés si alza infatti presto al mattino per esplorare il suo piccolo pianeta alla ricerca di nuovi ingredienti. “Amo inoltrarmi nella foresta per scovare, ad esempio, piccoli funghi parassiti che nascono sui tronchi degli alberi. Li utilizzo per condire i miei piatti, dopo averli saltati in padella con chili, coriandolo, cipolla”. Avviene così che nelle sue creazioni – si presentano solitamente come vere e proprie macchie di colore, da cui emanano fragranze fresche ed intense – viva e respiri tutta la natura che lo circonda: le verdure e le spezie del suo immenso orto, che supervisiona quotidianamente, ma, soprattutto gli ingredienti “segreti”, che reperisce direttamente nella fitta boscaglia, durante solitarie peregrinazioni mattutine. Ne sanno qualcosa gli happy few che hanno avuto l’onore di assaggiare il suo esotico e fresco menu durante il salone del gusto: Papadam con pomodori e insalata di erbe selvatiche, condita con olio di semi di mostarda; Yogurt, ceci del bengala, menta, chutney di coriandolo e frutta, come antipasti. E poi granchio al curry giallo, zucchero di palma, basilico e spinacio del Bangladesh, chicken tandoori, “gnocchi” al jackfruit; raita (un tipo di insalata vegetale con yogurt o curd) al ginger e carbone vegetale; Infine, come dessert, il suo celebre mango verde al curry con chiodi di garofano, foglie di pandan e spezie tostate. Chi conosce bene la cucina di Garés sa che, da quando vive alle Maldive, le piante odorose locali costituiscono la sua firma più riconoscibile in cucina: la curcuma, il fieno greco, il cumino, le immancabili foglie di curry regnano sovrani nei suoi piatti; ma anche le foglie di pandan, usate sia per piatti dolci che salati, il Raja-la, un tubero violetto lontano parente della patata, le foglie di senape, le finger lady, fritte, il cui sapore ricorda vagamente quello del carciofo.
Se fosse nato e vissuto negli Stati Uniti, gli Americani non avrebbero esitato a parlare di “american dream”: la sua ascesa nell’olimpo della gastronomia ha infatti il sapore di una bella favola. Dopo aver lavorato come distributore di pizze porta a porta, il suo primo impiego ai fornelli è quello di cuoco in una scadente rosticceria cinese nella periferia di Barcellona, avvolto da zaffate oleose e maleodoranti. Frequenta poi una scuola di catering e, qualche anno dopo, si lancia in uno stage non pagato al ristorante El Racó d’en Freixa. È qui che il suo estro, la sua curiosità ed il suo talento si fanno notare, e che, all’improvviso, ha avvio la sua rapida carriera nella gastronomia blasonata. Prende così a frequentare, poco più che ventenne, le “corti” dei tre re indiscussi della gastronomia Iberica: prima il “Lasarte-Oria” di Martín Berasategui, nei paesi Baschi; poi il “Sant Pau” di Carme Ruscalleda a Sant Pol de Mar e infine il tempio della gastronomia molecolare, il tanto celebrato “El Bulli” di Ferran Adrià, nel nord della Catalogna. Sono gli anni delle collaborazioni eccellenti, dove i suoi tre mentori d’eccezione lo iniziano ai segreti della cucina Europea d’avanguardia. E se in molti, arrivati al vertice, lì si sarebbero fermati, Garés decide invece di coronare un antico sogno e partire alla volta del Sud Est asiatico: Cambogia e Vietnam, Laos e Tailandia. Un lungo viaggio durato più di un anno che, racconta, gli aprirà occhi sulla sua ignoranza culinaria. “Più viaggi, più sono le culture gastronomiche con cui entri in contatto, e più ti accorgi di quanto sia limitata la tua conoscenza, anche se hai lavorato con i più grandi”, riflette con socratico spirito. “India, Cina? Sono come due enormi diamanti grezzi, che non aspettano altro che essere lavorati e trasformati una miriade di gioielli.” Spirito irrequieto e giramondo, Garés è stato giustamente descritto come “l’incarnazione del nomadismo gastronomico”: non si può capirne la cucina senza immaginarselo in viaggio per terre lontane, alla costante ricerca di nuove sorprese culinarie, nell’atto di annusare tra i banchi dei venditori ambulanti, o magari di scegliere il pesce nel frastuono del mercato di Hong Kong alle quattro del mattino. “ In europa siamo ammalati di autoreferenzialità”, commenta con una punta di polemica. “ci divertiamo a girare su noi stessi, come trottole”.
Quando, l’anno successivo, approda al Soneva Fushi, per prima cosa si mette a perfezionare ricette locali tradizionali, sfruttando l’esperienza “biomolecolare” delle esperienze passate. “Prima di correre devi imparare a camminare”, spiega. Poi, a breve – un po’ come Tahiti fece scoprire a Gaugain la sua migliore vena espressiva – l’esoticità dell’atollo catalizza in lui un processo creativo inarrestabile e decisamente personale che, a dire dall’entusiasmo con cui parla delle sue ultime “scoperte”, è ancora ben lontano dall’essere esaurito.“Ho scoperto a esempio che caramellando le spezie, potevo usarle per creare dei gelati insoliti, come quello al gusto di pianta di Pandano. O che il mango non è una pesca di qualità inferiore, come si è portati a credere assaggiando quelli in commercio in Europa, ma un versatile ingrediente che può essere usato, a vari gradi di maturazione, in piatti sia dolci che salati, come nel il curry di mango che ho presentato al salone.” All’origine della sua creatività tra i fornelli vi sarebbe un gioco che, rivela, ama giocare quotidianamente con se stesso: divertirsi ad ottenere il massimo dagli ingredienti a disposizione, soprattutto quando scarseggiano. A volte arrivo addirittura al punto di proibirmi di usarne alcuni, per testare la mia creatività. Ingaggiare una gara con se stessi: è questo il mio consiglio per chiunque voglia essere creativo in cucina”.
Pubblicato su SLOWFOOD 49