“Pensa ai bambini poveri dell’Africa!”. Questa è l’immancabile frase con cui, da bambino, mia nonna è sempre riuscita a farmi desistere dal non finire di mangiare un piatto. Più che di un semplice escamotage, si trattava certamente del tentativo, ben più profondo ed educativo, di instillarmi quel senso della sacralità del cibo con cui, da sempre, mia nonna onora ogni pasto. Poco o niente alla sua tavola viene gettato; ogni avanzo, con un po’ di fantasia ai fornelli, trova immancabilmente nuovo posto a tavola nei giorni successivi trasformato magicamente in frittate, zuppe e pasticci al forno, o semplicemente in cibo per i cani: un’attenzione che nasce, con tutta probabilità, dalla fame vissuta sulla propria pelle durante la guerra, quando non era raro – mi racconta – , vedere svendere gioielli di famiglia, mobili, pellicce in cambio di pane, marmellata e carne in scatola. Sprecare il cibo, per chi come mia nonna ha conosciuto la fame, costituisce un insulto nei confronti di chi, oggi, soffre la fame nel mondo; un imperativo etico per lei imprescindibile, e pressoché sconosciuto alla mia generazione.
A detta di un vero esperto in materia, Tom MacMillan – direttore del Food Ethic Council, una ONG Britannica che si occupa di campagne di sensibilizzazione contro lo spreco di cibo nel Regno Unito – le implicazioni etiche dello spreco di cibo sarebbero ben più gravi di una semplice mancanza di rispetto nei confronti di chi è meno fortunato. “Lo spreco di cibo è una consuetudine scandalosa, eticamente inaccettabile. E non solo perché equivale ad uno schiaffo in faccia a chi, ogni giorno, lotta per procurarsi il cibo, o addirittura muore per non esserci riuscito. Ben più concretamente, perché lo spreco costituisce, anche se per vie traverse, una delle cause della fame nel mondo.” Un mondo, ci ricorda MacMillan, dove si produce cibo sufficiente per sfamare 12 miliardi di persone, ma dove, dei quasi sette miliardi di persone che oggi popolano il pianeta, uno soffre la fame, mentre una quantità di cibo che basterebbe a sfamarne più di cinque finisce in parte nelle pance di chi ne ha fin troppo e in parte nelle pattumiere. Due fatti correlati tra di loro più di quanto si creda comunemente. «Il legame tra spreco nei paesi ricchi e povertà alimentare in altre parti del mondo non è né semplice né diretto, ma non per questo meno reale”, spiega. “I più cinici argomenteranno che le cause delle carestie che affliggono periodicamente il Terzo Mondo vanno cercate a livello locale – nelle guerre e nei disastri naturali. Un argomento, il loro, sicuramente più forte in passato rispetto ad oggi, nell’epoca della globalizzazione. Le fluttuazioni del consumo nei paesi ricchi sono in grado di incidere sulla disponibilità di cibo a livello globale, con conseguenze tragiche sulla capacità dei più poveri di acquistare anche solo il cibo necessario alla sopravvivenza di sé e dei propri figli”. Il riferimento è alla recente crisi alimentare del 2007-2008, causata, com’è noto, da una penuria di cereali sul mercato globale, e che ha palesato come mai prima quanto interconnessi siano i mercati alimentari mondiali di quegli alimenti di prima necessità, come il grano, il mais, il riso, che sono alla base della dieta di miliardi di persone. “Il caso del mais è particolarmente esemplare”, spiega . “In quegli anni enormi quantità di questo cereale sono stati acquistati dai paesi Occidentali per soddisfare la domanda del crescente mercato dei biocarburanti. A questo controverso “prelievo” è stato attribuito un buon 60-70% dell’aumento di prezzo che si è registrato per questo cereale sulle piazze mondiali. Le tonnellate in questione erano 90 milioni: ebbene, la quantità di cereali che Europa e USA sottraggono dai mercati per riempire le loro pattumiere è più del doppio. Non c’è quindi dubbio che sprecare cibo equivalga – attraverso il rincaro dei prezzi – a toglierlo dalla bocca dei più poveri.” Nessun paese al mondo, ormai, è completamente al riparo dagli effetti delle fluttuazioni dei beni alimentari a livello globale e perciò indirettamente dagli effetti del consumo e della prodigalità degli occidentali. Lo spreco crea fame, inoltre, in maniera indiretta, rubando terre che si sarebbe potuto dedicare alla produzione di cibo per le popolazioni locali. “Ovviamente”, conclude, “la soluzione al problema non è spedire in quei paesi i pomodori e il pane prossimi alla scadenza salvati dal cassonetto, ma piuttosto risolvere a monte il problema, limitando gli acquisti inutili, chiedendoci il senso di un sistema che fa confluire nei nostri supermercati e nelle nostre case così tanto cibo in eccesso rispetto alle reali esigenze ».
Si inserisce in questo dibattito anche Luca Falasconi, docente di economia e estimo rurale alla Facoltà di Agraria dell’Università di Bologna, nonché ideatore e presidente dell’associazione anti-spreco Last Minute Market. “Concordo con MacMillan, lo spreco nei paesi ricchi e la fame in quelli in via di sviluppo sono senz’ombra di dubbio due facce della stessa medaglia, due epifenomeni del medesimo problema. In Occidente ogni anno si registrano milioni di tonnellate di eccedenze agricole. Questo avviene, tra varie cause, anche perché, sia nella UE che negli USA, sono in vigore politiche protezioniste nate con lo scopo di contrastare l’abbandono delle campagne e che di fatto si traducono in un invito a produrre più di quanto sia necessario”. Buona parte delle eccedenze viene poi distrutta in loco, direttamente nei campi, che ogni anno, come in un dipinto espressionista, si colorano innaturalmente delle vivaci tonalità delle arance, pomodori e altra frutta e verdura accatastati nei campi per la macerazione. “Un’altra parte viene invece inserita nel mercato globale attraverso procedure di dumping, ovvero la pratica, largamente diffusa, di svendere il surplus agricolo a prezzi stracciati sui mercati dei paesi in via di sviluppo, spesso ad un prezzo addirittura inferiore a quello di produzione”. Una forma di concorrenza sleale, criticata aspramente persino dai sostenitori del libero mercato, che si ripercuote come un uragano sui mercati locali, con conseguenze tanto più gravi quanto più povera è l’economia del paese dove si esporta. “Le conseguenze per le economie di quei paesi possono essere disastrose.”, prosegue Falasconi, “L’afflusso di beni agricoli a prezzo stracciato vizia drammaticamente il mercato di quei paesi, rubando il lavoro ai contadini locali, che si vedono costretti ad abbandonare le campagne per infoltire le fila dei poveri urbani”. Per mezzo del dumping, lo spreco di cibo dell’ Occidente si traduce insomma in una maggiore dipendenza alimentare dei paesi in via di sviluppo, in una minore capacità di far fronte alle emergenze alimentari e, in ultima analisi, in un numero maggiore di persone che soffrono la fame.
Per motivi ben diversi, lo spreco di cibo avviene anche in quei paesi dove più la fame si fa sentire, e che meno posso permetterselo. Per mancanza delle infrastrutture più rudimentali, come silos per la conservazione dei cereali, o casse in legno o plastica per il trasporto della frutta e verdura, ogni anno milioni di tonnellate di cibo vanno perdute in Asia e Africa. “Non si tratta a rigore di spreco, ma di perdite post raccolto, causate da insufficienze infrastrutturali. Le implicazioni etiche sono diverse, ma il risultato è lo stesso: enormi quantità di cibo vengono prodotte inutilmente, per essere poi distrutte, con conseguenze drammatiche per la fame nel mondo”, commenta amaramente da Londra Mark Barthel, direttore della WRAP (Waste Resources Action Programme), un’organizzazione no-profit istituita dal Governo Britannico per affrontare la piaga dello spreco di cibo in Inghilterra. “Si tratta di quantità di cibo imponenti, che oscillano tra il 10 e il 40% del raccolto, con picchi del 50%, e, nel caso estremo del riso in Vietnam, addirittura del 70%.” Cifre che parlano da sole. Si stima addirittura che se le perdite di cereali dopo il raccolto in questi paesi fossero solo del 15%, la quantità sprecata ammonterebbe a 150 milioni di tonnellate, sei volte la quantità necessaria a eradicare la malnutrizione in quei paesi. “È terribile, e al tempo stesso in qualche modo incoraggiante sapere quanto cibo va perduto nei paesi in via di sviluppo dopo il raccolto: ciò significa che si potrebbe avere molto più cibo senza troppa fatica e soprattutto senza un ulteriore pressione sui sistemi ecologici. Eppure in Occidente”, accusa Barthel, “si preferisce spendere i fondi per finanziare la ricerca di nuove varietà di piante OGM più produttive e resistenti, nuovi pesticidi e fertilizzanti, e si dimentica, o si finge di dimenticare, che la soluzione è davanti al naso: fornire poche centinaia di dollari per l’acquisto delle più semplici infrastrutture per la conservazione e il trasporto. Meno del 5% degli investimenti nella ricerca oggi vengono destinati alla risoluzione del problema delle perdite post raccolto.” In un’epoca in cui i mercati sono sempre più interconnessi tra di loro, i paesi ricchi dipendono largamente dalle importazioni dai paesi in via di sviluppo per il proprio approvvigionamento alimentare: se le perdite fossero ridotte, argomenta Barthel, i prezzi di tali importazioni si abbasserebbero ed essi sarebbero i primi a beneficiarne. Lo spreco di cibo, insomma, così come la fame nel mondo, sono ormai problemi tanto globalizzati quanto il sistema alimentare di cui sono espressione e solo con una cooperazione attiva tra paesi sviluppati e in via di sviluppo si può sperare di mitigarli, se non risolverli del tutto. “La vera sfida”, conclude, “è dunque è portare sempre più paesi sviluppati a collaborare direttamente con l’altra metà della catena produttiva nei paesi in via di sviluppo, affinché le perdite vengano ridotte. Il potenziale è enorme, e tutto da sfruttare. Cooperation is the solution”.
Pubblicato su SLOWFOOD 46