“Il XXI sec. sarà il secolo dell’informale”. A sostenerlo sono gli organizzatori della Biennale di Architettura di Rotterdam, che all’architettura nelle città informali – ovvero quelle città dei paesi in via di sviluppo che crescono in maniera non controllata, dove sorgono shanty towns, slums e favelas, per intenderci – hanno dedicato un’ampia sezione della manifestazione. “Le previsioni per il futuro sono da brivido”, spiega Rainer Hehl, curatore di un portale sulle baraccopoli. “Tra venti anni gli esperti prevedono che a vivere in slums sarà la metà dei cittadini del mondo”. La favelization è il ben noto, drammatico, dark side della globalizzazione. I centri urbani del terzo mondo crescono a ritmi sempre più accelerati, invasi da masse di diseredati che abbandonano le campagne alla ricerca di un lavoro: i tassi di crescita – non ufficiali – di molte città Africane sono dell’ 8, 10 ma anche 12% annui. Se fino agli anni ’80 la povertà nei paesi in via di sviluppo era associata principalmente al mondo rurale, negli ultimi decenni si è assistito a una sorta di travaso della povertà dalle campagne alle città: oggi il tasso di povertà urbana nei paesi del terzo mondo è un impressionante 90% in America Latina, 45% in Asia e 40% in Africa. Nelle “città informali” si sopravvive soprattutto grazie alla cosiddetta “economia informale”: lavoretti più o meno saltuari, spesso improvvisati, rigorosamente non dichiarati al fisco e alle autorità, non regolamentati da norme legali o contrattuali. In questo contesto di povertà assoluta, il cibo ricopre per gli ultimi tra gli ultimi delle metropoli Africane, Asiatiche e Sud Americane un’importanza straordinaria. Per il fatto, certo, che in queste città un nucleo familiare povero spende in media dal 60 all’80% dei suoi averi per nutrirsi. Ma soprattutto perché, per donne e uomini vissuti fino a poco tempo prima in un contesto rurale, la produzione, trasformazione, il trasporto e la vendita di cibo diventano spesso l’unica forma di sostentamento a loro disposizione. Nasce così la brulicante e folkloristica rete di venditori ambulanti, cuochi amatoriali, trasportatori, coltivatori urbani, raccoglitori, pescatori ecc… che gli addetti ai lavori chiamano “settore alimentare informale” urbano. Le loro attività principali sono la produzione di alimenti nell’area rurale, urbana e periurbana, la loro trasformazione, il loro trasporto nelle città, la ristorazione e la vendita al dettaglio di prodotti freschi o piatti preparati sul momento. Un imponente settore della popolazione urbana che non costituisce, come potrebbe sembrare, un anacronistico residuato del passato, ma è, al contrario, il risultato delle politiche e delle trasformazioni sociali dell’epoca della globalizzazione, che hanno portato gli abitanti delle campagne a riversarsi in massa nelle città. La prova tangibile che anche nelle situazioni economicamente più difficili, i poveri sanno organizzarsi in fretta per provvedere ai propri bisogni alimentari.
Il termine “informale” è in un certo senso inadeguato per descrivere la complessa e cangiante realtà alimentare delle metropoli dei paesi in via di sviluppo: possono esservi soggetti attivi nell’informale che vendono, ad esempio, alimenti prodotti in seno ad un’economia formale, o merci vendute in mercati “formali” trasportate da trasportatori “informali”. Secondo alcuni studiosi si tratterebbe di due circuiti economici urbani molto diversi che si intrecciano simbioticamente: uno superiore e formale, di stampo capitalistico, e uno inferiore e informale, derivato dal mondo contadino, che al primo circuito fornisce manodopera a basso costo e il cibo a prezzi accessibili con cui sfamarla. Una cosa è però certa : esso rappresenta molto di più di una pennellata di colore nelle affollate e polverose strade delle metropoli dei paesi in via di sviluppo. In alcuni paesi, assorbe dal 40 al 60% della forza lavorativa, producendo ad esempio il 18% del PIL in Messico e addirittura il 60% in Ghana. Il “cibo informale” costituisce un’importante fonte di nutrimento per le fasce più povere : a Bangkok, ad esempio, esso fornisce alla città il 40% del suo fabbisogno energetico totale, il 39% di proteine e il 44% di ferro. In alcuni paesi, circa la metà del cibo consumato è acquistato dai venditori di strada.
«Eppure il settore alimentare informale è quasi sempre assente dall’agenda delle autorità locali di questi paesi», spiega Olivio Argenti, economo di marketing alla “rural infrastructure and agroindustries division” della FAO e probabilmente il massimo esperto Italiano dell’argomento. «Anzi, spesso gli informali sono vittime di vere e proprie politiche repressive, talvolta molto violente ». Come sta avvenendo da più di un anno in Vietnam, dove le autorità comunali di Hanoi, nel tentativo di « ripulire » e occidentalizzare l’aspetto della città, hanno dichiarato guerra ai venditori ambulanti senza licenza, bandendoli dai marciapiedi delle vie principali. « Molte autorità locali vedono nel settore alimentare informale solo un fattore di disturbo per il traffico urbano, una fonte di inquinamento e un veicolo per la trasmissione di malattie, dimenticandosi dell’enorme potenziale economico e sociale, non ancora sfruttato, che esso rappresenta ». Che il settore alimentare informale susciti reazioni non sempre positive presso le amministrazioni locali è comprensibile. Oltre ai vistosi problemi di ordine pubblico, come l’ostruzione del traffico, e di natura ambientale, come lo smaltimento improprio di una gran quantità di rifiuti, la proliferazione non controllata dell’informale alimentare suscita più di un interrogativo circa la sicurezza per il consumatore. I cibo venduto per le strade di Lagos, Calcutta e Lima è sicuro? La verità è che troppo spesso – denunciano numerosi studi – le bancarelle sono totalmente sprovviste delle attrezzature necessarie per garantire che il cibo non abbia subito contaminazioni da parte di microorganismi patogeni. Uno studio sulla qualità del cibo di strada venduto a Accra, la capitale del Ghana, ha rilevato la presenza in alcuni campioni di patogeni importanti come Escherichia coli, la Salmonella arizonae e Shigella sonnei. «Ad aumentare il rischio che batteri e altri contaminanti vengano serviti nel piatto ai clienti è soprattutto l’accesso limitato ad acqua potabile e a luoghi dove poter smaltire in tutta sicurezza i rifiuti », prosegue Argenti. « Gran parte dei problemi del settore nascono cioè dalla mancanza di un suo status legale, che faciliterebbe miglioramenti della situazione igienica e l’accesso a dei crediti». Regolare il settore informale, spiega Argenti, è possibile: vi sono numerosi esempi nel mondo di città dove le autorità locali finalmente hanno accettato le micro-imprese alimentari, facilitando il loro accesso a spazi e istruzione, istituendo un intelligente sistema di licenze che imponga un set di regole igieniche da rispettare pena la revoca del documento. È successo ad esempio a Manila e Bangkok, dove già dal 1989 esiste il pionieristico programma “Clean Food Good Taste”. Oppure a Quito, in Ecuador, dove l’ex sindaco Paco Moncayo, con la celebre frase: «Il ruolo dei venditori di strada deve essere preservato: non dobbiamo vederli come parte del problema, semmai come parte della soluzione», ha inaugurato agli inizi del 2000 un proficuo dialogo con gli informali del settore alimentare, ottenendo di spostarli in zone apposite, munite di infrastrutture igienico-sanitarie, e riuscendo così, in un colpo solo, a migliorare la qualità del cibo venduto e a decongestionare il traffico delle vie del centro.
Lungi dall’essere un mero epifenomeno della povertà, l’informale alimentare urbano costituisce piuttosto un importante strumento nelle mani dei governanti dei paesi in via di sviluppo per combatterla. Oltre a fornire cibo a prezzi contenuti per i più poveri, esso rappresenta infatti per molti di loro, soprattutto per le donne, un importante bacino di opportunità lavorative con cui sbarcare il lunario. Ma vi è un’altra povertà, meno materiale, che il “cibo informale” può aiutare a combattere: quella gastronomica. Chimichangas, burritos e quesadillas a Città del Messico, foul al Cairo, carimañolas a Panamá, feijoada a Sao Paolo o falafel a Marrakesh; il cibo venduto all’interno del settore informale è sempre diverso da paese a paese e spesso da città a città, perché, per intrinsechi motivi di inefficienza del trasporto, non può provenire da lontano. Si tratta di cibo locale, prodotto nelle campagne vicine alla città, nella regione periurbana o addirittura nella città stessa, necessario alla preparazione delle ricette tradizionali, senza le quali i popoli dei paesi in via di sviluppo rischiano di cadere nella trappola del cibo a basso costo proposto dalle catene di Fast Food Occidentali, sempre più presenti in quei continenti e prime beneficiarie della scomparsa della cultura gastronomica tradizionale. Fornendo ad ogni angolo di strada ricette che possono vantare una tradizione millenaria a prezzi molto competitivi, l’informale alimentare urbano costituisce dunque un importante argine all’”Hamburger assult”, l’inarrestabile proliferazione dei fast food nei paesi in via di sviluppo. Alla luce di questi fatti, il grande dilemma a cui si trovano di fronte le autorità di questi paesi, combattere o appoggiare l’informale alimentare, non sembra dunque aver ragion d’essere: si tratta piuttosto di trovare quale sia il modo migliore di conciliare settore alimentare formale e informale, cessando di vedere in quest’ultimo un pericolo, ma un’opportunità troppo importante per essere gettata al vento.
Pubblicato su SLOWFOOD 44
Photo credit: Olivio Argenti