Vivere per inseguire un sogno apparentemente impossibile, per poi realizzarlo. A volte succede per davvero, e non solo nei film. Per rendersene conto basta recarsi in Egitto e omaggiare di una visita due donne straordinarie, Nada Thabet e Samia Selwanes, le due referenti, rispettivamente, della comunità del cibo di Alessandria e di quella del Sinai.
Con un sorriso luminoso, Nada mi viene incontro lungo i binari al mio arrivo alla stazione di Alessandria. Ora che, dopo aver letto con attenzione la sua biografia sul treno, posso finalmente darle un volto, non posso fare a meno di rivivere mentalmente quelle settimane così drammatiche della primavera del 1980 che le hanno cambiato la vita. Rivedo quello stesso sorriso sul volto di una donna di ventinove anni più giovane che ha appena partorito il suo primo figlio. Lo vedo poi gradualmente perdere di convinzione, per poi sfumare in attonite espressioni di impotenza, dubbio, e infine sgomento e angoscia, quando, con il passare dei giorni, e poi delle settimane, appare chiaro che il piccolo non apre gli occhi e non risponde come dovuto agli stimoli sensoriali provenienti dall’esterno. Fino al giorno della diagnosi, che piomba addosso alla giovane madre come una pesante lapide di marmo: il bambino ha gravi difficoltà di apprendimento. Un duro colpo per ogni madre, in qualunque paese del mondo questo accada. Una tragedia ancora maggiore in Egitto, dove i bambini con difficoltà di apprendimento sono condannati a condurre misere esistenze in stato di perenne isolamento. Giudicati, a torto, incapaci di imparare e di fare progressi, un peso e niente più insomma, essi non vengono infatti né mandati a scuola, né tanto meno fatti giocare insieme agli altri bambini. Diventando così di fatto veri e propri “bambini invisibili”, come ha denunciato alcuni anni or sono un documento dell’Unicef. «Così facendo li si priva della possibilità di fare progressi», spiega Nada, mentre l’auto su cui ci troviamo sfreccia veloce in mezzo alla pianura semidesertica che circonda Alessandria. Che questi bambini possono fare progressi, spesso sorprendenti, è la sua grande verità, per la quale si batte da una vita. «Lungi dall’essere intrappolati in una condizione di handicap irrimediabile, essi possono, con l’esercizio, migliorarla, giorno dopo giorno». È per questo che Nada non ama la parola “ritardato”, cui preferisce l’espressione inglese “mentally challenged”, che fa riferimento alla sfida, che ogni bambino con difficoltà deve a suo dire ingaggiare e vincere con un destino tutt’altro che irrimediabilmente già scritto.
Animata dal desiderio di vedere un giorno suo figlio aprire gli occhi, e magari anche parlare, Nada Thabet non si è mai voluta rassegnare all’idea di un triste scenario di reclusione per suo figlio. Per anni, giorno dopo giorno, ha continuato a lavorare alla stimolazione dei suoi sensi. «Sono stata dura, durissima con lui. Giorno dopo giorno. Anno dopo anno». Fino al miracolo. Maged, all’età di due anni, apre gli occhi. A dieci, inizia a parlare. «Oggi mi aiuta attivamente a mandare avanti il centro». Si tratta del progetto di una vita spesa a favore dei bambini e dei giovani con difficoltà d’apprendimento, il “Village of Hope”, un ecovillaggio costruito a 30 Km da Alessandria, da lei fondato e finanziato, per il quale è stata inclusa, nel 2005, nella rosa delle possibili candidate ad un premio Nobel per la pace. Qui i giovani sono impegnati nella coltivazione di pomodori e altre verdure, nell’allevamento di capre, ma principalmente nel locale laboratorio di panetteria, il fiore all’occhiello del centro, dove ogni giorno vengono sfornate varie tipologie di paste e dolci tradizionali, come il classico omali, un dolce a base di pasta sfoglia (vedi box), o di pasta frolla, latte e diversi tipi di noci e nocciole. O gli imperdibili dolcetti col ripieno di marmellata di datteri. A Nada va il merito di aver dimostrato con i fatti che molte attività legate all’agricoltura sostenibile possono costituire un interessante bacino dove canalizzare costruttivamente le inesauribili energie altrimenti sprecate dei ragazzi e ragazze disabili. Con sorprendenti risultati sia dal punto di vista dei prodotti ottenuti che del miglioramento del loro profilo cognitivo. «Imparano. Migliorano. Crescono». I suoi occhi si illuminano di una luce bellissima, non molto diversa da quella che accende gli occhi di una bambina che mi mostra orgogliosa i suoi progressi nel ricamo. «La battaglia per il diritto all’educazione è lontana dall’essere vinta», prosegue, riassumendo di colpo un’espressione seria sul volto. «Secondo una statistica dell’UNICEF, una percentuale compresa tra il 10 e il 15% della popolazione mondiale è da considerarsi disabile, il 3% di cui è rappresentato da persone con gravi deficienze cognitive. Di essi solo il 2% riceve un’educazione scritta e orale».
A oltre 400 Km di distanza, a Tamr Henna, nel governorato di Et-Tor, ritrovo la stessa luce negli occhi di Samia Selwanes, referente della comunità di coltivatori di ulivi del Sinai, mentre mi mostra con orgoglio la sua florida piantagione di ulivi e palme. «Fino a pochi anni fa, qui c’era solo deserto!», esclama. In questa pianura arida e sabbiosa, a pochi chilometri dal mar Rosso, la famiglia di Samia porta avanti con ostinazione un pionieristico progetto di coltivazione biologica e sostenibile dell’ulivo su terreno desertico in collaborazione con le popolazioni beduine locali. Un’impresa tutt’altro che semplice. Innanzi tutto per le difficoltà intrinseche a coinvolgere delle popolazioni nomadi in un progetto di agricoltura stanziale. «È stato molto, molto difficile entrare in relazione con i beduini», racconta Samia, mentre passeggiamo per i filari di ulivi di Tamr Henna, una goccia di verde in un mare di giallo polveroso. «Sono un popolo fiero, sospettoso, incline allo scetticismo. Conquistarsi la loro fiducia è stato un processo estenuante, durato anni, nei quali abbiamo tentato di coinvolgerli attivamente in ogni fase del progetto, facendo così prova di umiltà ai loro occhi. E mantenendo sempre le nostre promesse». Mentre Samia parla, nella mia mente riecheggiano le parole scambiate pochi giorni prima con il proprietario del leggendario Café Riche, al Cairo, uno dei più antichi cafés littéraires della metropoli Egiziana. «Il deserto del Sinai è di fatto nelle loro mani», mi aveva spiegato l’anziano Copto, fine conoscitore del popolo Beduino. «Sono nomadi, sono ovunque, sono potenti. Poco importa chi sia il padrone ufficiale di quelle terre: tutti qui sanno che per acquistarle occorre pagarle due volte, una volta allo Stato e una volta ai Beduini». «È vero, nel Sinai regna di fatto la legge del più forte», spiega Samia. «La nostra forza, tuttavia, è stata il rispetto che siamo riusciti a instillare nei loro cuori. Al punto che ormai siamo invitati ai loro matrimoni, un privilegio riservato a pochi eletti». Oltre alle difficoltà di natura diplomatica, a complicare la realizzazione del progetto di Samia si sono infrapposti, com’è facile immaginare, numerosi ostacoli di ordine pratico. Coltivare ulivi nel deserto non è facile. Innanzi tutto per l’alta salinità del terreno e dell’acqua, che, in quella regione, rendono lenta e difficile la crescita della pianta, e, di fatto, non sfruttabile economicamente la sua coltivazione. A complicare le cose ci si mette poi il “khamseen”, un vento caldo primaverile che soffia su tutto il paese e sulle coste del Mar Rosso tra Marzo, Aprile e Maggio. «Quando decide di mostrare il suo volto distruttore, il “Khamseen” si trasforma in una vera e propria tempesta di sabbia, che in poche ore può portare via con sé oltre il 50% dei fiori della pianta, rovinando così il futuro raccolto». Ma poiché, com’è noto, Audaces fortuna adiuvat, un dì Samia s’imbatte casualmente in un sito internet che le apre gli occhi sul mondo degli EM o microorganismi effettivi, batteri intelligenti scoperti per caso da un ricercatore Giapponese che trovano da anni ampia applicazione nell’agricoltura biologica: «Attraverso processi biochimici del tutto naturali, questi batteri miracolosi rendono i principi del terreno maggiormente biodisponibili per la pianta, anche in presenza di poca acqua e scarsa salinità, creandole così le condizioni per una crescita più rigogliosa. Da due anni lo aggiungiamo regolarmente al nostro compost, con risultati davvero sorprendenti. Tra di essi, una fioritura anticipata di due settimane, quanto serve a scampare le tremende e impietose raffiche del “khamseen”». Con uno strano sorrisetto sulle labbra, mi fa cenno di seguirla fino alla fine del suo appezzamento. Oltre una bassa staccionata, mi mostra gli ulivi del vicino, che fa uso di pesticidi e fertilizzanti di origine chimica. «Non sempre il giardino del vicino è più verde», ride. Il confronto tra le due coltivazioni, biologica e non biologica, non regge: gli ulivi di Samia, sono decisamente più frondosi e, pur essendo stati piantati all’incirca nello stesso periodo, alti almeno il doppio. Mentre parla, di nuovo quella bella luce nel suo sguardo. Quella luce inconfondibile che dalla notte dei tempi brilla negli occhi di tutti coloro che escono vittoriosi da una sfida che i più ritenevano persa in partenza.
L’ Omali
C’era una volta un re Mamelucco di nome Aybak, sua moglie la regina Om Ali e una giovane concubina chiamata Shagaret Eldor. La leggenda racconta che la regina un giorno scoprì che Shagaret Eldor aspettava un figlio dal re, e che, rosa dalla gelosia, uccise barbaramente la rivale a colpi di zoccolo di legno, dopo averla attirata con l’inganno in una piscina del palazzo. In preda ad un’insaziabile sete di vendetta, ordinò per giunta che il seno della malcapitata fosse fatto a pezzetti e servito in pasto al marito. Fu per ricordare questo macabro banchetto che in Egitto, molti secoli or sono, fece la sua prima comparsa l’“omali”, un dolce a base di pasta sfoglia, o di pasta frolla, spezzettata nel latte, condita con uvetta e diversi tipi di noci e nocciole. Diffuso e apprezzato un po’ ovunque nel mondo Arabo, solo gli Egiziani tuttavia conservano ancora diffusamente memoria del truce fatto di sangue a cui questo dessert deve la sua origine. L’Omali si serve caldo, e ricorda vagamente il pudding di pane inglese. Nel mondo Arabo, uno dei suoi più illustri apprezzatori era il leader Palestinese Yasser Arafat, che, si racconta, associava questo dessert alle cure materne e al tempo dell’infanzia. Un fatto ben noto a chiunque volesse ingraziarsene i favori.
Pubblicato su SLOWFOOD 43
Photo: Michele Fossi