To have and to hold. Why do we collect?

Perché collezioniamo? Tra i motivi principali il bisogno di sentirsi vivi e di lasciare ai posteri oggetti che raccontino la nostra storia. Un esperto in materia, Philip Blom, spiega il fenomeno

i l “mistero” del collezionismo – capire quale forza irrefrenabile spinga alcune persone ad ammassare sistematicamente oggetti – mi ha sempre affascinato e incuriosito molto. Una cosa è certa: dietro a questa pericolosa febbre si nascondono uno o più bisogni che il collezionismo riesce, o tenta, di soddisfare. Non si spiegherebbe altrimenti cosa spinga tanti individui a investire in una raccolta così tante energie, denaro ed emozioni, talvolta al punto da rovinare la propria esistenza e quella dei loro cari. Più studio il fenomeno, dai tempi antichi fino ai giorni nostri, più mi convinco che si tratta essenzialmente di una questione di amore e morte, Eros e Thanatos. Prendiamo per esempio la sterminata collezione di conquiste muliebri del Don Giovanni sciorinata dal servo Leporello in uno dei momenti più celebri dell’opera mozartiana; ciò che più sta a cuore a Don Giovanni non è tanto il piacere fisico fine a se stesso, quanto la lunghezza del “catalogo” di Leporello: esso gli fornisce la prova tangibile della propria esistenza; più voci esso contiene, più egli si sente vivo. Non a caso Freud ha parlato del Don Giovanni come del prototipo del collezionista: quel che conta, per lui come per tanti accumulatori di oggetti, non è tanto la fruizione diretta delle proprie conquiste quanto l’atto di conquista in sé. Per il collezionista tutto ruota intorno al momento dell’acquisizione del pezzo mancante, passato il quale egli perde solitamente gran parte dell’interesse per l’oggetto acquisito. Come il catalogo di Leporello ogni raccolta, insomma, costituirebbe un modo come un altro di esorcizzare la morte: un momentaneo trionfo dell’ordine sul caos; una vittoria dell’Eros, freudianamente inteso come pulsione alla vita, sulla caducità dell’esistenza. Ma c’è di più. Pensiamo a uno dei primi esempi di collezioni della storia: il corredo funebre del Faraone; la camera funeraria dei sovrani egizi era riempita, com’è noto, di oggetti di uso quotidiano nella convinzione che essi avrebbero accompagnato il sovrano nella sua vita nell’aldilà. Una raccolta minuziosa dei manufatti che più rappresentano gli aspetti della vita terrena del defunto e di cui si spera possa continuare a gioire post mortem: la collezione, proprio come il corredo funebre del Faraone, costituisce a tutti gli effetti una biografia non verbale. Ecco svelato un altro dei motivi principali per cui collezioniamo: ammassiamo cose, oggetti inanimati, imperituri; proprio perché intuiamo che essi ci sopravviveranno; essi continueranno cioè a raccontare la nostra storia anche quando non ci saremo più. È questo, in ultima analisi, ciò che più mi affascina del collezionismo: il fatto che sia un’attività estremamente eloquente, che rivela aspetti molto profondi della natura e del carattere di chi la pratica. In effetti non mi sono mai interessato alle collezioni in sé, a quante migliaia di oggetti le compongano, a quanti milioni esse valgano. Ciò che di volta in volta rende questi ensemble di pezzi unici e preziosi ai miei occhi è la loro natura rivelatoria: ogni raccolta ci fornisce una fotografia del suo artefice, ci consente di scavare nei meandri della sua mente, rivelandocene le aspirazioni, le speranze e le paure. Il filosofo e storico polacco Krzysztof Pomian parla giustamente delle similitudini tra pezzo da collezione e reliquia sacra: entrambi sono oggetti che, perduta la loro funzione pratica originaria (a nessuno verrebbe in mente di usare un chiodo della Santa Croce per attaccare un quadro alla parete), cessano di appartenere a questo mondo per diventare il simbolo di un’altra dimensione con cui il proprietario desidera entrare in contatto. Mondi diversi che vanno da una visione “ultraterrena” alla bellezza e alla soddisfazione estetica, da quello dei geni e dei grandi artisti a un universo tutto mentale, in cui ci è concesso regredire al tempo perduto dell’infanzia, come paiono indicarci certe accumulazioni di bambole o di trenini giocattolo. Una collezione, insomma, ci parla di sogni reconditi e lo fa in una maniera molto più eloquente ed esaustiva di quanto i loro proprietari sarebbero mai in grado di fare. Anche se volessero. (testo raccolto da Michele Fossi. Foto Corbis)

Philip Blom* Storico, giornalista e scrittore, è l’autore di un brillante saggio sul collezionismo intitolato “To have and to hold – an intimate history of collectors and collecting” (Allen Lane-Penguin, 2002). Nato ad Amburgo nel 1970, ha vissuto sia in Inghilterra sia in Austria, dove oggi risiede. Tra i suoi ultimi lavori, il romanzo “Luxor” (2006) e i saggi storici “Enlightening the World” (2006), sulla nascita dell’Enciclopedia, e “The vertigo years” (2008), sui primi 14 anni del ’900

By Michele Fossi, published in L’Uomo Vogue, 2009

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