Ninety grams a day. Meno carne, più ambiente

Le discrepanze tra i vari continenti espresse in termini di consumo giornaliero di carne pro capite sono vistose: si passa dai 31 g dell’Africa e i 54 g dell’Asia occidentale – compreso il Medio Oriente –, ai 112 g dell’Asia meridionale e orientale, i 147 g dell’America Latina e 224 g dei paesi sviluppati

La crescita del settore dell’allevamento, già oggi ampiamente non sostenibile per il pianeta, sembra non conoscere battute di arresto. La domanda globale di carne nel 1961 era pari a 71 milioni di tonnellate annue. Oggi, 47 anni dopo, tale valore è quadruplicato: 290 milioni di tonnellate. A causare un tale aumento del consumo di carne non è stato, come si potrebbe credere,  solo la crescita della popolazione mondiale, ma anche un deciso aumento del consumo medio pro capite, che nello stesso arco di tempo è più che raddoppiato. E non solo nei paesi “ricchi”. In molti paesi in via di sviluppo,  negli ultimi venti anni, l’aumento del consumo pro-capite di carne è avvenuto ancor più velocemente,  un fenomeno battezzato dagli esperti “Transizione Alimentare”. A destare particolari timori presso la comunità scientifica sono le stime che prevedono che il consumo di carne è destinato a raddoppiare ulteriormente da qui al 2050, e che hanno spinto Jonathon Porritt, presidente della commissione del governo Britannico sullo sviluppo sostenibile, a dichiarare recentemente: «L’aumento del consumo di carne rappresenta sicuramente una delle maggiori crisi ambientali dei nostri tempi. Esso figura come la prima causa di inquinamento delle terre e delle acque, principale causa della deforestazione e della scomparsa della biodiversità sul pianeta. Nel mondo, le attività agricole, in special modo l’allevamento del bestiame, sono responsabili per circa un quinto del totale delle emissioni di gas serra».

Un dettagliato studio pubblicato sulla prestigiosa rivista medica Lancet uscito nell’ottobre dell’anno scorso calcola che per mitigare sufficientemente l’impatto del settore dell’allevamento sul cambiamento climatico sarebbe necessario che la produzione mondiale di carne si ridimensionasse in linea con gli obiettivi governativi di riduzione della CO2: ovvero di un terzo entro il 2020 e del 60% entro il 2060. In termini di grammi di carne pro capite “consentiti” al giorno, le stime dei ricercatori si traducono in un valore medio mondiale pari a  90 g. Non una grande riduzione, sembrerebbe, tenuto conto che il consumo medio attuale, pro capite, è di 101 g.  Un valore medio che, tuttavia, poco o nulla dice delle enormi disparità che si registrano tra paesi ricchi e poveri riguardo al consumo di carne: ai soli 5 kg/anno/persona dell’India fanno da contraltare i 123 kg/anno/persona degli USA, a cui spetta la poco lusinghiera palma di paese più carnivoro del pianeta (i carnivori italiani consumano invece solo – si fa per dire – circa 105 kg di carne in media all’anno). Altrettanto vistose sono le discrepanze tra i vari continenti espresse in termini di consumo giornaliero di carne pro-capite: si passa dai 31 g dell’Africa e i 54 g dell’Asia Occidentale (compreso il medio oriente), ai 112 g dell’ Asia meridionale e orientale, 147 g dell’America Latina e  224 g dei paesi sviluppati. Per arrivare al valore-obiettivo di 90 g proposto dalla rivista Lancet, il grosso dello sforzo ricadrebbe dunque sui paesi industrializzati come l’Italia, che dovrebbero impegnarsi a ridurre di oltre la metà il proprio consumo di carne. Tale “soglia massima” universale per il consumo giornaliero di carne è stata calcolata, infatti, appositamente per consentire al pianeta, di pari passo con la riduzione del consumo di carne nei paesi ricchi, di sopportarne parallelamente un aumento nei paesi poveri (la cosiddetta filosofia della “contrazione e convergenza”, di cui si sente sempre più spesso parlare).  Un aumento decisamente auspicabile nei paesi dove vivono gran parte degli 850 milioni di persone denutrite del pianeta: carne e latticini, se fossero aggiunti alla dieta dei bambini sottoalimentati anche in minime quantità, porterebbero a considerevoli vantaggi per la loro salute, come dimostrato da un recente monitoraggio svolto in Kenya, durato molti anni. Anche i cittadini dei paesi ricchi hanno del resto un grande interesse a modificare la propria dieta in questo senso: è infatti ormai appurato che l’eccessivo consumo di carne costituisce una delle principali cause dell’obesità, del diabete e di gran parte delle malattie croniche che affliggono le società Occidentali.

L’invito di Rajendra Pachauri

Per scongiurare la catastrofe annunciata del cambiamento climatico, occorre dunque agire, e presto, anche sul fronte della dieta. Il Dr. Rajendra Pachauri, presidente dell’IPCC, nonché premio Nobel per la pace nel 2007, senz’ombra di dubbio la voce più autorevole per ogni questione riguardante il riscaldamento climatico, ha recentemente posto l’accento sul problema, esortando i cittadini Americani e Europei a moderare il proprio consumo di carne e latticini. «La carne è un bene di consumo ad alta emissione di gas-serra. Per favore, mangiatene meno! Chiunque sia interessato a dare il proprio contributo per la causa del cambiamento climatico», ha recentemente spiegato il premio Nobel durante una conferenza el Regno Unito,  «ha un modo molto efficiente e rapido per farlo: rinunciare alla carne almeno un giorno a settimana, per poi passare gradualmente ad almeno due giorni no meat. Di tutte le modifiche alle nostre abitudini che possiamo effettuare per ridurre le emissioni di gas-serra, quella di limitare la carne è la più facile a realizzarsi e, per di più, quella che consente di avere effetti positivi sul clima a più breve termine».

Più efficiente, ad esempio, che comprare solamente prodotti locali. Senza nulla voler togliere alla buona pratica di acquistare cibo prodotto localmente, è dimostrato  che, in termini di emissioni-serra risparmiate, i vantaggi per l’ambiente che si ottengono rinunciando alla carne rossa un solo giorno a settimana a favore di pesce o pollo  sono superiori a quelli che si avrebbero acquistando unicamente prodotti locali. Una riduzione concertata del consumo di carne darebbe inoltre benefici a partire da subito, a differenza della messa a punto di nuove tecnologie “verdi”, che, anche se fossero poste oggi stesso in commercio,  richiederebbero molti anni per rimpiazzare efficacemente le vecchie. Una strategia particolarente intelligente perché porterebbe ad una riduzione consistente delle emissioni antropiche di metano, un gas 21 volte più efficace della CO2 nell’indurre l’effetto serra, ma con un tallone di Achille: il suo tempo di permanenza nell’atmosfera è di soli otto anni, contro gli oltre cento della CO2. Rinunciare ad una bistecca oggi equivarrebbe dunque a dare un contributo attivo al raffreddamento del pianeta già nel giro di pochi anni.

Cosa mettere nel carrello

Nella pratica, per il consumatore ciò significa innanzitutto cominciare a distinguere tra tipi di carne a maggiore impatto ambientale da altri che lo sono meno, privilegiando al momento dell’acquisto la carne di maiale, di pollo e altri animali monogastrici rispetto a quella dei tipici ruminanti, come il manzo, la pecora e la capra: il loro allevamento produce infatti le temutissime emissioni di metano e richiede un consumo di risorse idriche e di combustibile di origine fossile decisamente superiore . La conversione da cereali a carne implica sempre, com’è noto, un’enorme perdita di energia, ma questo è particolarmente vero nel caso dei bovini: per 1 kg di carne di manzo servono infatti circa 13 kg di grano e 30 kg di fieno, a fronte dei soli 2.3 kg di grano necessari per la stessa quantità di carne di pollo. Meglio dunque ridisegnare la mappa energetica della nostra dieta, affidando ai prodotti di origine vegetale, energeticamente più efficienti e dunque meno inquinanti, gran parte del nostro fabbisogno, come consigliava l’IPCC già nel 2001. “Una transizione dalla produzione di carne a quella di vegetali destinati al consumo umano, dove possibile, porterebbe ad un drastico aumento della resa energetica per ettaro coltivato e a sostanziali riduzioni delle emissioni di gas-serra”. Un discorso a parte merita la carne biologica. Chi l’acquista ha diritto a lavarsi la coscienza e sentirsi escluso dall’obbligo morale di ridurre il proprio consumo di carne? In generale, è vero che l’acquisto di prodotti biologici può aiutare a ridurre le emissioni di gas-serra? Da anni il dibattito è aperto. (SILVIA!, Se vuoi elimina o metti in nota)I sostenitori della metodologia di allevamento tradizionale argomentano che, in virtù della loro maggiore produttività, l’impatto ambientale calcolato per kg di vegetale o carne prodotta è in realtà inferiore a quello che si avrebbe se fossero state seguite procedure biologiche. La risposta dei sostenitori del biologico è che la rinuncia a fertilizzanti e pesticidi – tutte sostanze che, com’è noto, oltre a inquinare i terreni e le acque, comportano consistenti emissioni di gas serra, sia in fase di produzione, sia dopo essere stati rilasciati nell’ambiente – consentirebbe di ottenere una riduzione delle emissioni ancor maggiore, pur tenendo conto dell’inevitabile perdita in termini di produttività. Finalmente in Germania è uscito un dettagliato studio, eseguito dall’associazione ambientalista Food Watch e commissionato dal governo tedesco, nato con l’esplicito scopo di dipanare le nebbie a riguardo. I risultati emersi rivelano che, relativamente alla produzione di cereali e altri vegetali, l’utilizzo di metodologie biologiche consente per davvero di risparmiare notevolmente emissioni di gas-serra, dando così ragione ai sostenitori del biologico: un kg di grano prodotto con tecniche tradizionali comporta 404 g di CO2-equivalenti, contro i 178 g (un buon 55% in meno) che si hanno con tecniche biologiche. Ma quando si prende in esame la produzione di carne e latticini, i benefici per l’ambiente di una dieta bio sono di gran lunga inferiori. Anzi, in alcuni casi particolari, la carne biologica si rivela, a sorpresa, responsabile addirittura di maggiori emissioni di quella da allevamento intensivo. In termini di impatto ambientale, la differenza tra una dieta vegetariana ed un regime onnivoro, che include anche carne e latticini, è enorme, sicuramente ben più grande di quanto comunemente percepito dai consumatori (FIG 1, Silvia la richiedo subito a Food Watch). Food Watch calcola che una dieta vegetariana comporta emissioni annue comprese tra 33 e 74 kg di CO2-eq., a seconda che si opti per vegetali biologici o meno. Basta aggiungere i latticini alla dieta e le emissioni passano a 235 kg (dieta biologica) e 288 kg (dieta convenzionale). Ha senso dunque sostituire, a volte, alcuni prodotti di origine animale, come latte e formaggio, con i corrispondenti vegetali, come latte di soia e tofu.  Aggiungere infine la carne alla dieta fa schizzare le emissioni a 520 kg di Co2-eq (dieta biologica) e 566 (dieta convenzionale). Un onnivoro, in altri termini, emette con la propria dieta tanti  gas-serra quanti ne emettono diciassette vegetariani messi insieme. Numeri che parlano chiaro:  a far sballare il nostro conto con l’ambiente è dunque proprio la carne, e in misura minore i latticini, poco importa se ottenuti con tecniche biologiche o meno. Non resta dunque che seguire il consiglio del premio Nobel Pachauri e riorganizzare intelligentemente la nostra dieta. Un’idea potrebbe essere quella di destinare parte del denaro che oggi spendiamo per la carne per l’acquisto di più economiche proteine vegetali,  liberando così i fondi per acquistare, se si è carnivori convinti, una quantità di carne sì minore, ma possibilmente biologica e di qualità superiore. Coniugando così gusto e rispetto per l’ambiente.

Pubblicato su SLOWFOOD 38

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