Interview with Ulrich Seidl

Da “Canicola”, il film vincitore del Gran premio della giuria a Venezia del 2001 cui deve la notorietà internazionale, passando per “import/Export” (2007)  e la trilogia “Paradise: Love” -“Paradise -Faith” – “Paradise -Hope” (2012), fino al più recente “In the basement” (2014), le opere cinematografiche del regista viennese Ulrich Seidl, note per mettere a nudo i lati più biechi ed oscuri dell’animo umano, finiscono immancabilmente per polarizzare gli animi. «Capita spesso che i miei film suscitino negli spettatori reazioni di rifiuto violento, epidermico, ed è naturale che sia così: li concepisco come “strumenti per rendere coscienti”, grimaldelli per scardinare le porte della nostra censura ed obbligarci a prendere atto di quanto la nostra natura sia ambivalente e contraddittoria», spiega il cineasta. «Ci cerchiamo e ci leghiamo gli uni agli altri, per sfuggire alla solitudine ed alle nostre frustrazioni, per poi, immancabilmente, sentirci soffocati dalla rete di relazioni che abbiamo tessuto con le nostre stesse mani. Dei personaggi dei miei film mi interessa raccontare i tentativi, spesso fallimentari, di segare le sbarre di questa prigione interiore. Per chi si riconosce in questo tentativo di fuga, la loro visione può risultare intollerabile». Non farà eccezione, c’è da scommetterci, l’ultima fatica cinematografica del “maestro del turbamento”, “Safari”, tra i più attesi film in concorso di questa 63° edizione della Mostra. Con questo documentario, che dopo il successo di “Paradise: love” segna il ritorno di Seidl nel Continente Nero, il regista austriaco affronta infatti uno degli argomenti più scabrosi della sua lunga carriera di “cantore del dark side della natura umana”: il “piacere di uccidere”. «Il film nasce dal materiale che ho raccolto nell’arco di sette anni, durante i quali mi sono recato regolarmente in Namibia e Sud Africa per filmare le battute di caccia grossa  di un gruppo di austriaci e tedeschi. Uomini benestanti, che decidono di trascorrere le loro vacanze ad uccidere gli animali della savana. Non per cibarsene, ovviamente, ma per puro divertimento. » racconta. «Quel che più mi ha colpito durante quei soggiorni africani», prosegue, «è stato osservare come, dopo ogni colpo andato a segno, i cacciatori di trofei si abbraccino e si congratulino calorosamente l’uno con l’altro, come se fossero scampati chissà a quale pericolo. Questo nonostante oggi le battute di caccia si svolgano al sicuro da ogni rischio, sparando con fucili ad alta precisione dall’interno di lussuose jeep. Un mero retaggio di tempi ormai lontani, quando cacciare costituiva davvero per l’Uomo un’attività pericolosa, in cui spesso era la bestia ad avere il sopravvento? O forse una dinamica di gruppo dai tratti inquietanti, che rivela come, per alcuni di noi, uccidere sia un inconfessabile piacere di cui tanto più si gode quanto più lo si condivide con dei complici? A pensarci bene, i crimini di guerra più odiosi, come stupri e torture, avvengono quasi sempre in una dimensione collettiva, quando i singoli soldati delegano al “gruppo” il giudizio morale sulle azioni che compiono». Quando si apre l’home page di Seidl, sorprende trovare accanto alle consuete specifiche lavorative come “direttore”, “scrittore”, “produttore”, un nutrito elenco di aggettivi e attributi non necessariamente lusinganti, come  “pornografo sociale”, “mascalzone”, “voyeur”, “misantropo”, “cinico”, “provocatore”, “pessimista”. «Non si tratta di auto-definizioni, come pensano in molti, bensì degli epiteti che mi hanno affibbiato i giornalisti cinematografici nel corso degli anni, e che mi sono divertito a collezionare», racconta aprendosi in un sorriso. «In molti di essi, ovviamente, non mi riconosco. Non mi considero, ad esempio, un pessimista, né tanto meno un cinico. Anche se le mie ricerche approdano spesso a nere conclusioni, il mio obiettivo di regista non è mai quello, fine a se stesso, di girare “film pessimistici”, quanto di cercare la verità, bella o brutta che sia, e una volta trovata, rappresentarla in chiave realistica, senza troppi fronzoli. I miei film, a guardar bene, contengono sempre un elemento di speranza. I miei personaggi agiscono perché, in cuor loro, sono convinti che un cambiamento sia possibile. Lo stesso può dirsi di me: se fossi veramente convinto che l’umanità è perduta, se avessi ceduto, fino in fondo, alle lusinghe del cinismo, non vedrei il senso di continuare a fare film».

Pubblicato su L’Uomo Vogue, Settembre 2016

Photo: Julian Mullan 

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