So extreme: Interview with Sebastian Horsley.

L’erede quarantacinquenne della Northern Food, gigante dell’industria alimentare britannica, è solito aggirarsi per Soho con la tuba in testa e vestito con sgargianti bespoke suits. Dipinge, ma la vera arte di questo “pavone senza causa” è la vita. È considerato l’ultimo dandy di Inghilterra, e tale si sente. Riassume il suo essere in un mosaico composto da guerrieri, sognatori, giocatori d’azzardo, crociati, ladruncoli, violentatori e martiri. Ma non chiamatelo “eccentrico”: è solo roba da ricchi.

«Cosa ti fa credere che io sia un eccentrico, darling?  Sono un dandy. Un eccentrico è una persona troppo ricca o troppo potente per essere considerata pazza. Un dandy è una persona troppo povera o troppo inutile per essere considerata sana di mente. Gli eccentrici sono le erbacce di un giardino i cui fiori sono i dandies. Detto questo, fa’ di me ciò che desideri. Non m’interessa. Chi sono, del resto, per negarmi a te? Non sono niente, sono solo vestito meglio». Comincia decisamente col piede sbagliato – anzi con la parola sbagliata, “eccentrico” -, la mia intervista con Sebastian Horsley. Non ama questo aggettivo l’uomo che, a torto o a ragione, è considerato l’ultimo vero dandy d’Inghilterra da quando Quentin Crisp, l’autore de “Il funzionario nudo”, è passato a miglior vita una decina di anni fa. Basta però rettificare, e spiegare che “eccentrico” , nelle mie intenzioni, andava inteso nel suo senso etimologico di “lontano dal centro”, “outsider”, perché di colpo la parola contro la quale  ha scagliato con veemenza i suoi aforismi gli risulti più congeniale. «In tal caso sì, chiamatemi pure un eccentrico. Ad ogni modo è fondamentale tracciare una profonda linea di demarcazione tra ciò che chiamiamo originalità e mera eccentricità, per la quale non ho tempo. Originalità significa diversità individuale naturale scevra da ogni pretenziosità o velleità artistica. L’eccentricità è invece voluta, costruita, ed è spesso solo una maschera indossata per coprire un vuoto». Sebastian Horsley, l’erede dell’impero della Northern Food, un gigante dell’industria alimentare britannica, ha quarantacinque anni ed è solito aggirarsi con una tuba in testa vestito di sgargianti bespoke suits per le strade di Soho, dove vive in un appartamento di due stanze arredato in maniera decisamente non-convenzionale, con una parete riempita da un mosaico di teschi umani, e una pistola carica sul comodino, che è lì per ricordargli ogni mattina che è in vita per scelta. Dipinge, ma solo saltuariamente, perché non ritiene di avere particolare talento.  La sua più grande opera d’arte – come ogni dandy che si rispetti – è la sua vita, tutte le altre attività artistiche sono solo passatempo e distrazione. Se proprio deve prendere in mano il pennello, ha bisogno di provare prima sulla sua pelle le sensazioni dei personaggi che intende raffigurare. Ecco quindi che lo troviamo a nuotare in acque infestate dagli squali in Australia, per una serie di dipinti dedicati al più sanguinario abitante degli oceani, o, nel 2000, appeso ad una croce nelle Filippine, crocifisso alle mani e ai piedi con veri chiodi e senza anestesia, per prepararsi a dei dipinti sul tema della crocifissione. Nel 2003 hanno suscitato scalpore alcuni scatti che lo ritraggono a Amsterdam nell’atto di copulare con delle donne amputate. In occasione del lancio negli Stati Uniti del suo libro “Dandy in the Underworl, la sua “autobiografia non autorizzata” – si è visto negato l’ingresso nel paese dalle autorità Americane “ per motivi di “turpitudine morale”. Duecento pagine circa che fanno sollevare più di una volta le sopracciglia, nelle quali Horsley si lancia in un dettagliato resoconto di una vita spesa tra sesso, droga e abiti appariscenti, raccontando dell’infanzia passata con genitori e parenti alcolizzati («Nella mia famiglia tutte le figure che dovevano essere verticali erano orizzontali»), degli anni in cui si è guadagnato la vita come gigolo, della presunta affaire col gangster Scozzese Jimmy Boyle, considerato a lungo l’uomo più violento di Scozia, delle 100 000 sterline spese in crack e cocaina, e delle altrettante investite in amore mercenario, di cui non perde occasione per elogiare i pregi. («Quando paghi una prostituta – io l’ho fatto almeno mille volte nella mia vita – compri calore umano senza che debba intervenire necessariamente la personalità. Odio le donne per quella loro offerta di intimità, quel tentativo di invadere prepotentemente la mia sfera più privata»). In gioventù, Sebastian ha l’intuizione che la ricetta per la felicità sia avere carisma, un bellissimo aspetto e tanto stile. «Avevo ragione, ed è così che mi sono trasformato in un pavone senza causa. Una futile macchia di colore in un altrettanto futile mondo dove i colori invece scarseggiano». Dalla lettura di Baudelaire, ma soprattutto dalla cieca ammirazione per i suoi idoli di sempre, tutti famosi dandy, da Marc Bolan (il fondatore della band glam-rock “T-Rex”) a Quentin Crisp, capisce di essere anche lui un membro di quella «esigua stirpe di creature che si muovono liberamente ad ogni livello della societá, dai salotti delle élite ai suoi bassifondi, convinti che nessuno dei ruoli che essa propone, incluso quello di artista, meriti di essere accettato, e, soprattutto, preso sul serio».  “Capisce di essere” e non “diventa”, ci tiene a precisare, perché «il dandismo non è una vocazione, ma una condizione, alla quale non ci si può sottrarre, ma che al massimo si può curare con gli abiti». Un dandy nell’accezione horsleyana, ovvero «in parte guerriero, in parte sognatore, in parte giocatore d’azzardo, in parte crociata, in parte ladruncolo, in parte violentatore, in parte martire». Una condizione che equivale anche ad una condanna all’infelicità, « perché un dandy vero», precisa,  «è costretto dalla sua natura a rinunciare alle cose più ambite dal resto dell’umanità: matrimonio, figli, carriera e felicità. Un vero e proprio martirio dell’anima». Anche per questo motivo, spiega, si tratta di una categoria umana rarissima: «Il dandismo nel senso genuino del termine è molto raro. Come pietre preziose, la personalità del dandy trova il suo valore dalla sua scarsità».  Così rari, che nemmeno Oscar Wilde, da molti considerato il dandy per antonomasia, può secondo Horsley essere considerato tale. «Wilde viene spesso considerato un dandy, ma non lo era. Era un esteta. Il dandy ama essere guardato, l’esteta ama guardare. L’esteta cerca i piaceri della vita, a partire da quelli della tavola; il dandy invece segue uno stile di vita più austero, e se proprio deve mangiare, lo fa per avere la forza di parlare o per aumentare l’effetto delle droghe che prende. Il dandy ha una visione disincantata della vita, l’esteta è un sentimentale».  Se egli fosse stato un vero dandy, non avrebbe mai intentato un processo contro il marchese di Queensberry, spiega : «Un vero dandy non avrebbe mai invocato in sua difesa le leggi di una società che professa di disprezzare, che non prende sul serio, di cui denuncia l’affettazione. Veniamo scaraventati su questo pianeta senza che ci venga detto perché. Ci costruiamo un personaggio come un carapace che ci protegga dalla paura del vuoto esistenziale. Medici, avvocati, preti, artisti: Look at them! Guardali! Credono di essere persone vere e autentiche, ma se ti avvicini senti ancora il puzzo della vernice sul loro volto!”. Il dandy, al contrario si fa carico della verità dell’esistenza, a rischio di risultare antipatico e fastidioso a chi quella verità per tutta la vita si ostina a non volerla vedere: «Se una maschera deve essere, my dear, tanto vale allora indossarne una tutta colorata, orlata di piume e pietre preziose! Il dandy è semplicemente il più bello di questi impostori chiamati esseri umani» Perché è questa la vera, dissacrante essenza del dandismo: gridare per tutta la vita “il re è nudo!”, rendere il più visibile possibile, con i propri colori sgargianti, la maschera che la società impone a ciascuno di noi di indossare. È forse questo, più della mancanza di talento e del suo modo disinibito di porsi al centro dell’attenzione, il motivo per cui Sebastian Horsley, come altri dandy prima di lui, irrita e suscita come pochi altri l’antipatia di guardie aeroportuali e benpensanti: perché è una figura eminentemente sovversiva, ma con l’aggravante di esserlo in senso filosofico, e di coglierci tutti o quasi nel segno. La sua arma non a caso sono gli aforismi, rigorosamente presi in prestito, che inanella l’uno dopo l’altro lungo il filo della conversazione: “Io non parlo, cito. Sono un falso, darling. Sono il risultato di tanti pezzettini messi insieme presi qua e là. Eppure sono la persona più artificiale e al tempo stesso più genuina che mai incontrerete”.

 

Pubblicato su L’Uomo Vogue, Luglio-Agosto 2009

 

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