Interview with Julian Charrière

Ex studente di Olafur Eliasson e noto anche ai più digiuni di arte contemporanea per la sua performance “Some pigeons are more equal than others”, per la quale nel 2012, scatenando le ire degli animalisti, aveva colorato alcuni piccioni di Piazza San Marco a Venezia di rosso, blu e verde, nel 2014 l’artista svizzero-francese Julian Charrière presenta al Musée cantonal des Beaux-Arts di Losanna uno dei suoi capolavori di sempre: “Future Fossil Spaces”, una serie di enigmatiche torri a pianta esagonale color bianco sporco, costruite con mattoni di sale prelevati dallo sterminato Salar de Uyuni in Bolivia. Parte integrante di quell’istallazione erano gli spazi vuoti che quei prelievi dell’artista avevano lasciato all’interno del Salar: antri cavernosi rimasti a monito di un imminente futuro di sfruttamento minerario e distruzione. “Si tratta del più grande giacimento di Litio non ancora sfruttato del mondo. Se la domanda di questo elemento, indispensabile all’industria delle batterie, rimarrà alta come quella attuale, il Salar, a dispetto della sua bellezza preistorica, è destinato ad essere immolato sull’altare delle tecnologie digitali e ad essere saccheggiato”, racconta nel suo studio Berlinese, circondato da centinaia di blocchi di sale che confluiranno nella nuova versione di “Future Fossil Spaces”, che presenterà all’Arsenale, nel Padiglione Terra della Biennale. “Questa nuova, omonima istallazione, anch’essa realizzata con prelievi del Salar di de Uyuni, costituirà un radicale ampliamento ed evoluzione rispetto al progetto precedente», rivela sibillino. «Come nella torre descritta da Borges nel racconto “La Biblioteca di Babele”, eretta allo scopo di racchiudere al suo interno tutto lo scibile umano, così queste torri di sale si ergono per condensare e comprimere, in una sola istallazione, le varie dimensioni temporali lungo cui si snoda la storia di questo minerale: da un lato il suo lungo passato — il Salar si è formato oltre trentamila anni fa, all’epoca della formazione delle Ande —, dall’altro quello che si annuncia essere il suo brevissimo futuro”.  Non è la prima volta che Charrière affronta un lungo volo intercontinentale per raccogliere i reperti geologici necessari alle sue opere: posseduto dal demone del viaggio e dell’esplorazione, in passato lo abbiamo visto recarsi in alcuni tra i più remoti e desolati angoli del pianeta, dai deserti del Cile e dell’Argentina, ai paesaggi lunari del Kazakistan e dell’Islanda. In questi paesaggi disabitati, non di rado, esegue in solitario anche indimenticabili performance sito-specifiche che documenta su video, e che colpiscono sia per l’intrepida determinazione del protagonista che per la straordinaria carica poetica delle immagini. Nel video “”Somewhere” (2014), ispirato dal racconto fantascientifico di ambientazione postatomica “The Terminal Beach” di J.G. Ballard’, egli ci conduce per 90 minuti, vestito di uno scafandro antiradiazioni,  per le strade deserte di Semipalatinsk, in Kazakistan, il sito dove tra il 1949 e il 1989 l’Unione Sovietica condusse oltre quattrocento test nucleari. In  “The Blue Fossil Entropic Stories”, del 2013, lo troviamo invece sulla vetta di un iceberg alla deriva nei mari antartici, impegnato per ore, in condizioni climatiche proibitive, a cercare di scioglierlo con una fiamma ossidrica. «Formatosi oltre trentamila anni fa, in epoca preistorica, il ghiaccio di quell’iceberg cela al suo interno preziose informazioni, si pensi all’importanza dei carotaggi antartici per la climatologia ed altre scienze. Eppur sappiamo che presto i cambiamenti climatici avranno la meglio su questo scoglio galleggiante, ritrasformandolo in acqua. Ad andarsene con lui, per sempre, saranno anche le informazioni che i ghiacci perenni conservano al loro interno». Ciò che emerge, proprio come nel caso delle architetture saline di “Future Fossil Spaces”, è una sconcertante asimmetria temporale: ciò che le forze della Terra hanno creato e conservato per millenni, verrà trasformato e distrutto dall’Uomo in un battito di ciglia, almeno in termini geologici. Se è indubbio che questa ed altre sue opere, documentando l’impatto violento delle attività umane sul paesaggio, sono portatrici di una sensibilità ambientalista, sarebbe profondamente sbagliato tuttavia ridurre la missione artistica di Charrière ad una mera denuncia ecologista: «I miei lavori non nascono mai unicamente per sensibilizzare o per esprimere un giudizio morale di sorta, quanto per rivelare le forze invisibili che plasmano il paesaggio, dai fenomeni geologi alla sete di risorse dell’era digitale, senza escludere, su un piano più immateriale, le proiezioni culturali con cui l’umanità cambia significato e percezione dei luoghi. Il tutto cercando di focalizzare, dove possibile, punti di contatto tra passato e futuro”». Vi riesce con risultati particolarmente poetici ed eleganti in “Into the Hollow”, una personale inaugurata lo scorso anno presso la galleria Dittrich & Schlechtriem a Berlino, per la quale crea delle insolite conformazioni rocciose ottenute fondendo ad altissime temperature rifiuti tecnologici e sabbie vulcaniche. Antichissime all’aspetto, impressione rafforzata dalle vecchie teche museali in cui vengono esposte, queste rocce anticipano in realtà il remoto futuro geologico, e con tutta probabilità postumano, di computer e telefonini, destinati un giorno lontano ad essere rimineralizzati e riassorbiti dal suolo. Per quanto ci affanniamo a saccheggiare la Terra delle sue risorse, ad una velocità tale da costringere la scienza a parlare degli ultimi due secoli e mezzo addirittura come di un’era geologica a parte, l’Antropocene, il pianeta — ci ammoniscono quelle opere — si riprenderà tutto, dopo averci dimenticato.

Pubblicato su L’Uomo Vogue, Maggio 2017

 

Photo credit: Steven Kohlstock. Stylist: Sarah Grittini
Photo credit: Steven Kohlstock. Stylist: Sarah Grittini

 

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