Marfa, Texas

Marfa, Texas. Poco meno di duemila abitanti, un solo bar, un solo semaforo. Sembra incredibile che questo paesino sperduto su un altopiano del deserto del Chihuahua. a sette ore di guida da Austin, sia riuscito, soprattutto negli ultimi anni,  a conquistarsi l’attenzione della frenetica comunità creativa internazionale, imponendosi nell’immaginario degli aficionados di Art Basel, Freeze o del Tribeca Film Festival come un luogo mitico, dove, almeno una volta nella vita, occorre rendersi in pellegrinaggio. La prima sensazione che si prova, quando finalmente si spengono i motori, è di essere approdati sulle sponde di una minuscola isola, circondata a perdita d’occhio da un oceano di pietre e cactus. La metafora insulare trova eco nelle parole di un veterano di Marfa, Ree Willaford, direttore e curatore della“Galleri Urbane” di Dallas, tra i primi a credere nel potenziale di questo remoto avamposto, al punto da inaugurarvi un distaccamento della propria galleria d’arte. «Amo pensare a Marfa come ad un atollo, che artisti contemporanei, attori, scrittori e creativi di ogni genere hanno eletto a loro rifugio», spiega. «Per piccolo che questo luogo possa sembrare, la qualità degli incontri e delle conversazioni che puoi fare qua non hanno niente da invidiare a quelli di una grande metropoli. La concentrazione di “persone interessanti” che riesce ad attrarre,  non è certamente quella tipica di un villaggio di pochi abitanti».

Ad inserire il nome di quest’isola di creatività sulle carte nautiche dell’art world, ed a segnarne così per sempre il destino, fu il padre del minimalismo Donald Judd, che nel 1977 trovò in questo paese di rancher semi-abbandonato un rifugio dall’asfittica autoreferenzialità della scena dell’arte della Grande Mela, verso cui, nel corso della sua carriera, aveva maturato un crescente disinteresse e sdegno. Nel 1979 acquistò con l’aiuto della DIA Foundation un’intera caserma militare in disuso, e nel corso degli anni successivi ne riempì l’area circostante di opere d’arte minimaliste sovradimensionate, perché potessero essere esposte in quello che considerava il loro habitat naturale: gli spazi aperti dell’America. Nacque così nel 1986 una delle principali attrazioni di Marfa: la Chinati Foundation, dove oggi è possibile ammirare istallazioni di artisti del calibro di Dan Flavin, Carl Andre, e capolavori di Judd come “Artillery Sheds with 100 Works in Mill Aluminium” e “Fifteen untitled works in concrete”. «A Marfa si può fare un’esperienza dello “vastità dello spazio” impensabile in Europa o sulla East Coast», racconta l’artista contemporaneo Sam Schonzeit, camminando tra i monoliti cavi di cemento che compongono l’opera.  «Quando al mattino apro la finestra, mi si dischiude una vista che abbraccia persino montagne situate a 90 chilometri di distanza. Un po’ la sensazione di immensità che si prova quando si varcano i cancelli dell’ ex aeroporto berlinese di Tempelhof, oggi adibito a parco cittadino, moltiplicata per mille. Ma ciò che più colpisce, quando si arriva a Marfa, è soprattutto il mutare del senso del tempo: sembra scorrere più lentamente, e non solo perché non vi sono distrazioni, e non si perdono ore, come a New York, per spostarsi da un luogo all’altro. È come se qua, magicamente, fluisse ad un ritmo tutto suo». Nonostante le viste mozzafiato sull’“oceano di pietra” che circondano Marfa siano, racconta, un monito continuo dell’isolamento di questo luogo, l’artista dichiara di non sentirsi in eremitaggio. «A Marfa non ci si sente mai soli: vuoi perché si è circondati da una comunità di persone animate da interessi e passioni simili, vuoi per il continuo flusso di “interesting people” — artisti, curatori, scrittori, musicisti e quant’altro – che si spingono su questo altopiano tutto l’anno. Per certi versi, l’atmosfera che si respira è quella della mia SoHo quando ero bambino».

«Marfa è ormai sulle mappe del cosiddetto “turismo culturale” », racconta il wunderkind dell’editoria indipendente, direttore creativo, modello e consulente editoriale newyorchese Alec Friedman, cittadino di Marfa da quattro anni. «Senz’ombra di dubbio negli ultimi anni è cresciuto il numero di persone che si recano in visita solo per qualche giorno, per visitare la Chinati Foundation o la vicina istallazione permanente “Prada Marfa” del duo scandinavo Elmgreen and Dragset, per fare un giro tra gli atelier, le gallerie d’arte e le tante boutique sorte come funghi negli ultimi anni, o per partecipare al Marfa Film Festival o al “Marfa Myths”, (Il festival di musica indie giunto quest’anno alla sua terza edizione, definito l’“anti-Coachella, ndr). Eppure, son convinto che, paradossalmente, di questo luogo così speciale si possano vivere le esperienze più forti quando, nel weekend, negozi, boutique ed atelier sono chiusi, e “consumare”, che si tratti di cultura o merce, è impossibile. Proprio in questi giorni, Marfa può regalare a chi è disposto ad aprirsi, a parlare con uno sconosciuto, interazioni umane inattese, forti, che ti cambiano nel profondo. Tanto è il capitale umano che si concentra tra queste poche strade».

«Credo che molti di noi residenti siano venuti qua per sfuggire al “rumore di fondo” delle metropoli, per concentrarsi sul proprio lavoro senza troppe distrazioni», prosegue. «Solo in un secondo tempo ci si rende conto che vivere tra questi spazi immensi, immutati da milioni di anni, immersi nel silenzio per gran parte del tempo, sotto un cielo che la notte si accende della luce di miliardi di stelle, comporta anche un continuo invito all’introspezione, cui è difficile sottrarsi: Marfa ti obbliga a lavorare sulla tua persona, che ti piaccia o meno. Non è forse un caso che, nonostante la vicinanza, i creativi qua lavorino come monadi, senza interagire troppo l’uno con l’altro, tanto ognuno di noi è assorbito dal processo di scoperta interiore”». Con un rovescio della medaglia che Friedman ha scherzosamente ribattezzato “Effetto Shining”: «Un po’ come avviene allo scrittore protagonista del capolavoro di Kubrik, in questo luogo idilliaco, dove ci si rifugia per trovare pace ed ispirazione, possono riemergere anche certi “mostri” del passato. Marfa è una terra magica, ma con le dovute attenzioni: può anche far impazzire chi non è sufficientemente forte da sopportare il silenzio interiore che ti regalano i suoi paesaggi pietrificati».

A giudicare dagli articoli su Marfa pubblicati negli ultimi tempi, incentrati maggiormente sul rincaro nel settore immobiliare e sul fenomeno di  gentrificazione che sulla sua singolarità culturale, viene da pensare che neanche questa perla del deserto, a dispetto del suo isolamento geografico, può considerarsi immune dalla “maledizione” che, da sempre, condanna le comunità di artisti delle metropoli ad un perenne nomadismo: la cosiddetta “hype”, che, lo abbiamo visto a Soho, Montmartre e in tutti quei quartieri dove il popolo dei creativi apre gli atelier, porta inevitabilmente ad un rincaro dei prezzi, e con esso alla diaspora di quella bohème che li aveva resi luoghi speciali. «È indubbio che l’attenzione planetaria sorta attorno a questo luogo abbia innescato profondi meccanismi di cambiamento: è sempre più difficile per i creativi trovare spazi dove vivere o dove aprire il loro atelier, e, cosa impensabile solo pochi anni fa, numerosi residenti di Marfa hanno ormai convenzionali lavori di ufficio “nine-to-five” », racconta Beau Buck, originario di Los Angeles, proprietario di un concept store. «Voglio sperare, tuttavia, che il deserto, con le sue spine e le sue asperità, preserverà Marfa. E che in quest’appendice del mondo, ad oltre 300 km dal più vicino aeroporto, certe trasformazioni avverranno solo in parte, o più lentamente che altrove. Del resto l’atmosfera culturale che qua si respira, ancora oggi, è di crescita, e non di stagnazione. La vitalità innestata da Judd in questo deserto pietroso poco meno di quarant’anni fa sembra tutto fuorché prossima ad esaurirsi. L’ispirazione, a Marfa, è ancora nell’aria».

Pubblicato su L’Uomo Vogue, Novembre 2016

Photo credits: Ben Weller

 

Boyd Elder. Artist and site representative for Prada Marfa. Photo credit: Ben Weller
Mike Davis. Ranch hand. Photo credit: Ben Weller
Photo credit: Ben Weller
Photo credit: Ben Weller

 

Alec Friedman. Curator. Photo credit: Ben Weller
Asa Merritt. Writer. Photo credit: Ben Weller
Cody Barber. Co-owner of Cast & Crew. Photo credit: Ben Weller

Sam Schonzeit. Artist. Photo credit: Ben Weller
Alan Dickson. Club owner. Photo credit: Ben Weller
Moritz Landgrebe. Artist. Photo credit: Ben Weller
Shawn Smith. Artist. Photo credit: Ben Weller
Duncan Stewart. Writer. Photo credit: Ben Weller
Laszlo Thorsen-Nagel. Painter. Photo credit: Ben Weller

Ty Mitchell. Cowboy and owner of The Lost Horse Saloon. Photo credit: Ben Weller
Miguel Borunta. Student. Photo credit: Ben Weller
Warren Acosta aka “Coasta”. Rapper and producer. Photo credit: Ben Weller

 

Huck Roch. Student and future pro-skater. Photo credit: Ben Weller
Richard Covarrubias. Musician. Photo credit: Ben Weller
Beau Buck. Artist and co-owner of Mano Mercantile. Photo credit: Ben Weller

 

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