The nomadic alternative: interview with Isabel Marant

 Nomade dichiarata, come certi tratti bohémien delle sue collezioni rimarcano, la passione di Isabel Marant per il viaggio nasce in famiglia. «Sono cresciuta in una casa stracolma dei cimeli che mio padre, viaggiatore indefesso, recuperava in tutto il mondo. Da bambina li guardavo con occhi sognanti, pregustando il giorno in cui avrei potuto visitare anch’io tutti quei paesi lontani», ricorda la cinquantaduenne stilista. La donna che immagina di vestire, del resto, è lei pure una gran viaggiatrice. «Le attribuisco questo e numerosi altri tratti della mia persona. Per certi versi, sono la musa di me stessa. Proprio come me, questa donna cosmopolita cerca nella moda uno strumento con cui impreziosire il suo stile, senza mai perdere di vista il proprio carattere né la propria spontaneità. Non è un caso che i miei abiti siano concepiti per essere combinabili con altri già presenti nel guardaroba. Me la figuro inoltre forte, autonoma, indipendente, e pure dolce, femminile, innamorata delle proprie imperfezioni e della propria unicità. Un’allure che alcune donne hanno e altre no, e che poco o nulla ha a che fare con l’età: Agnès Varda la incarnava anche a novant’anni alla perfezione», spiega la designer, che figura tra gli sponsor della rimasterizzazione di uno dei capolavori della regista pioniera della Nouvelle Vague scomparsa alla fine di marzo: “L’une chante, l’autre pas” del 1977. «Con questo e altri suoi film, Varda è riuscita a essere una grande ambasciatrice della causa dell’emancipazione femminile senza mai scadere nel femminismo militante né tradire la sua natura gentile».

La moda “nomade” di Marant esprime nello stesso tempo anche tutta la sua passione per l’artigiananalità. «Quando creo un abito, una delle mie preoccupazioni è riuscire a rielaborare in chiave contemporanea antichi saperi manuali in via di “estinzione”, cercando di dare un piccolo contributo alla loro sopravvivenza». Una forma di attivismo che la stilista parigina ama definire “Ecology of Clothing” e che scaturisce dalla sua meraviglia davanti all’inesauribile abilità dell’uomo di creare bellezza, anche con pochi mezzi a disposizione. «È un impegno che ho maturato nel corso dei miei viaggi, durante i quali ho avuto modo di avvicinarmi a numerose culture e tecniche artigianali, e studiarle da vicino».Se in Francia le arti manuali tendono ormai a essere considerate figlie di un dio minore, e a scomparire, «in Italia invece vengono ancora oggi vissute come vere e proprie forme d’arte da tutelare, cui consacrarsi con passione, con i risultati eccellenti che sono sotto gli occhi di tutti», dice la stilista, che il 15 giugno sarà a Milano per celebrare ufficialmente lo sbarco nel nostro paese del suo marchio, fondato a Parigi nel 1994. «La recente apertura delle boutique Isabel Marant di Roma (via del Babuino) e Milano (via Santo Spirito) è per me il miglior modo di festeggiare il primo quarto di secolo della mia griffe. Non sarei arrivata dove sono senza il sostegno dell’Italia che, insieme al Giappone, è stato il primo paese ad avere creduto in me, fin dai tempi di Twen, la linea di maglia e di jersey con cui ho cominciato. È l’ennesima riprova di come gli italiani, forti della loro cultura in materia di moda, si confermino da sempre pronti a scommettere su brand ancora alle prime armi».

I festeggiamenti del venticinquennale della maison proseguiranno poi a Parigi, nel Marais, con l’apertura a luglio della prima boutique Isabel Marant dedicata alla linea maschile. «La ricerca di un’allure individuale, senza strafare, è un imperativo forse ancora più importante per l’uomo che per la donna: quando diventa fashion victim, l’uomo perde ai miei occhi gran parte della sua sensualità». Qual è allora la sua sfida? «Creare dei total look maschili, che non intacchino quel lato nonchalant così sexy negli uomini».

Pubblicato su Vogue Italia, Giugno 2019

 

 

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